Borsa, Atene riapre contrattazioni dopo un mese ma crolla del 16%

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La Borsa di Atene ha riaperto le contrattazioni dopo cinque settimane di stop forzato e fa registrare un crollo del 23%, per poi correggere e portarsi al -16%.

A vincolare il listino sono soprattutto i titoli finanziari affossati dalla National Bank of Greece: d’altra parte dall’esito del referendum dello scorso 5 luglio i mercati europei sono stati in altelena tra crolli e rialzi repentini dai quali Atene è rimasta immune. In qualche modo il listino ateniese deve quindi riallinearsi. Sui titoli finanziari, in particolare, pesa l’incertezza sull’esito delle trattative per il via libera al nuovo piano di aiuti da 86 miliardi.

In Cina, invece, è calato oltre le previsioni il settore manifatturiero a luglio, segnando i valori minimi dal novembre 2011. L’indice Pmi Caixin calcolato da Markit si ferma a quota 47,8, in flessione rispetto al dato flash del 23 luglio scorso, a 48,2, e molto al di sotto di quota 50, la soglia che divide un mercato in contrazione da uno in espansione. A incidere sul calo, secondo gli analisti, il crollo dei mercati del mese scorso, che avrebbe raffreddato l’attività produttiva: l’effetto potrebbe essere transitorio, per i più ottimisti, se le misure varate dal governo cinese per salvare i mercati mostreranno efficacia nelle prossime settimane.

L’ondata di cessioni che ha nuovamente travolto Shanghai (-2,1% a fine seduta, ma -30% dai livelli di metà giugno) non ha però colpito Tokyo (-0,18%) frenata piuttosto dai dati macroeconomici americani della scorsa settimana. Male, invece, Shenzen che ha lasciato sul parterre il 3,7%. Tengono, per il momento, anche i mercati del Vecchio continente. Piazza Affari sale dello 0,7%, Parigi dello 0,5%, Francoforte dello 0,9%, mentre Londra cede lo 0,4%. Debole Wall Street: il Dow Jones cede lo 0,5%, l’S&P 500 lo 0,3%, mentre il Nasdaq perde lo 0,2%.

Lo spread rimane stabile in area 113 punti base con i Btp decennali che sul mercato secondario rendono l’1,77% sui minimi da metà maggio e comunque meno degli omologhi spagnoli e sloveni che a lungo hanno rappresentato per gli investitori un porto più sicuro del debito italiano.

 

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