Pro e contro della tassazione delle rendite finanziarie

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 Gli uomini che guideranno dal punto di vista economico il nuovo Governo guidato da Matteo Renzi sono dell’idea che l’Italia, la quale dal 2012 ha equiparato la tassazione su redditi diversi (capital gain su strumenti finanziari) e redditi da capitale (interessi e dividendi) al 20% (con l’eccezione di titoli di Stato, buoni postali, bond di Paesi in White list e di organismi internazionali che godono dello sconto al 12,5%) dovrebbe aumentare l’aliquota sulle rendite finanziarie al 30%.

Per favorire una redistribuzione sul mondo del lavoro, tassato complessivamente al 68%, la strada sarebbe questa. Occorre dire che Enrico Letta a ottobre aveva provato a introdurre un aumento al 22% ma non ci è riuscito. Renzi, che per Fitch non potrà fare più di Letta e per questo motivo l’outlook dell’Italia rimane negativo, riuscirà ad aumentarla di ben dieci punti?

E in ogni caso, sarebbe giusto farlo? Gli operatori finanziari del Paese sono divisi. Secondo la Cgil, un aumento della tassazione dal 20 al 25% e per i titoli pubblici o assimilati dal 12,5% al 15% potrebbe portare maggiori entrate per circa 2,5 miliardi. Che con l’aliquota al 30% salirebbero a circa 5. L’Italia ha bisogno di investimenti esteri nell’economia reale, quindi se un aumento degli introiti derivanti dalla tassazione delle rendite liberasse risorse per progetti strutturali la soluzione sarebbe accolta di buon grado.

La Cgil ha le idee chiare in merito: un aumento del prelievo dall’attuale 20% al 25% aumenterebbe le entrate di 2,5 miliardi. Si arriverebbe a più 5 con l’aliquota al 30%.

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