Classifica dei brand che valgono di più al mondo

Per l’ottavo anno di fila è disponibile la classifica “BrandZ Top 100“, stilata da “Millward Brown OPtimor“. Al primo posto si piazza Apple, proprio nel giorno in cui il Senato americano ha attaccato l’azienda fondata dal compianto Steve Jobs accusandola di evasione fiscale.

Apple è ancora il marchio che vale di più al mondo. Il suo valore è pari a 185,07 miliardi di dollari. Dietro si piazza, invece, Google. 113,66 miliardi di dollari. Medaglia di bronzo per Ibm, con 112,53 miliardi. Si segnala l’ottima tendenza al rialzo da parte di Samsung, che ha guadagnato posizioni su posizioni rispetto allo scorso anno. E’ ancora presto per arrivare tra le prime 10 posizioni, ma di questo passo i presupposti ci sono tutti. Attualmente, dopo un aumento di valore del 51%, quello del colosso coreano è pari a 21 miliardi di dollari.

L’escalation di Samsung

Proprio Nick Cooper, il managing director di Millward Brown Optimor, si è soffermato sull’escalation del marchio in questione. “La competizione per la leadership nel mercato smartphone ha consentito a Samsung di ottenere una crescita significativa nel valore del suo brand, bilanciando uno straordinario periodo di innovazione con un aumento della quota di mercato”.

Due italiane tra le prime 100 aziende

Tra le prime 100 posizioni ci sono anche due aziende italiane: la prima è Gucci, al sessantottesimo posto. La seconda è Prada, al novantottesimo.

Top 10 

Ecco le prime dieci aziende con più valore al mondo:

1 – Apple 185,07 miliardi dollari

2 – Google 113,66 miliardi dollari

3 – Ibm 112,53 miliardi dollari

4 – McDonald’s 90,25 miliardi dollari

5 – Coca Cola 78,41 miliardi dollari

6 – At&T 75,50 miliardi dollari

7 – Microsoft 69,81 miliardi dollari

8 – Marlboro 69,38 miliardi dollari

9 – Visa 56,06 miliardi dollari

10 –China Mobile 55,36 miliardi dollari

Se si sbloccassero i pagamenti delle Pa l’Italia inizierebbe la ripresa

 Se molte imprese italiane stanno chiudendo una parte di responsabilità è da attribuire anche a tutti coloro che non pagano per i servizi ricevuti. I debitori maggiori sono le pubbliche amministrazioni: il loro debito nei confronti delle aziende italiane, secondo le ultime stime di Bankitalia, ammonta a circa 71 miliardi di euro.

► La Commissione Europea chiede all’Italia un piano di smaltimento dei debiti delle PA

In questi ultimi giorni il problema è venuto a galla in tutta la sua drammaticità, soprattutto dopo che anche l’Unione Europea ha chiesto all’Italia di mettere all’ordine del giorno la discussione del problema per approntare un piano di estinzione del debito. E sono sempre di più le personalità politiche ed economiche, come anche le associazioni di categoria, a chiedere al governo che il decreto sullo sblocco dei pagamenti delle PA sia varato il prima possibile.

Tra di loro, la voce che si è levata più forte delle altre è stata quella di Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria, che, dati alla mano, ha affermato che pagando anche solo due terzi dei debiti che le Pubbliche Amministrazioni hanno accumulato nei confronti delle imprese (circa 48 miliardi) ci sarebbe:

► Quasi pronto il decreto del Tesoro per lo sblocco dei pagamenti delle PA

un aumento di circa 250mila occupati e un incremento del Pil dell’1%, par a 16 miliardi di euro, per i primi tre anni, fino ad arrivare all’1,5% nel 2018.

I dati arrivano dal Centro studi Confindustria che ha fatto una simulazione evidenziando le grandi ricadute positiva che lo sblocco dei pagamenti avrebbero sia sull’occupazione che sugli investimenti.

Quasi pronto il decreto del Tesoro per lo sblocco dei pagamenti delle PA

 Lo ha detto il Ministro dell’Economia Vittorio Grilli. Il Ministero del Tesoro, dopo che anche la Commissione Europea è intervenuta sulla questione del blocco del pagamento dei debiti delle pubbliche amministrazioni alle aziende, starebbe lavorando con la massima urgenza alla preparazione di un decreto legge apposito per risolvere la situazione.

► Ancora fermi i pagamenti della PA alle aziende

Secondo il ministro Grilli non c’è alcun impedimento: una volta che il decreto sarà pronto, si sta ancora lavorando per risolvere alcuni aspetti tecnici, perché il tutto si risolva basterà la firma di Mario Monti.

Ma come verranno pagati questi debiti?

Una larga fetta di quanto dovuto alle aziende italiane dalle amministrazioni sarà finanziata attraverso l’emissione di nuovi titoli di Stato, in modo che il pagamento del debito non influisca troppo sul bilancio dello Stato, per non incorrere in nuove procedure di infrazione da parte dell’Unione.

Inoltre, come annunciato ieri, l’Unione Europea, per andare incontro allo Stato, ha deciso che il pagamento di questi debiti non farà parte del conteggio del debito complessivo nazionale, in quanto sarà considerato come fattore attenuante del patto di stabilità.

► La Commissione Europea chiede all’Italia un piano di smaltimento dei debiti delle PA

Secondo le prime indiscrezioni il decreto in lavorazione presso il Ministero prevederà il pagamento di una prima tranche di debito, tra i 45 e i 50 miliardi di euro, già durante quest’anno, e la restante parte sarà saldata nel 2014.

Quanto costa un dipendente a tempo determinato?

 La riforma del lavoro voluta dal Ministro Fornero ha creato un certo scompiglio in tutti i settori economici, anche se le intenzioni, molto probabilmente, erano quelle di dare un aiuto ai lavoratori ad avere delle condizioni contrattuali più favorevoli, disincentivando il ricorso a contratti a tempo determinato.

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Lo strumento per raggiungere tale obiettivo è stato, come molto spesso accade, l’aumento delle aliquote delle tasse che il datore di lavoro deve pagare sui dipendenti e un aumento delle ritenute in busta paga. Il risultato?

Un numero quasi invariato di contratti a tempo determinato e salari sempre più bassi.

Ad esempio, come riportato da Il Sole 24ore, un operaio edile assunto a tempo determinato in un’azienda con 15 dipendenti, guadagna giornalmente 47,07 euro, come la maggior parte dei lavoratori assunti nelle stesse condizioni. All’azienda, però, non costa così, perché si devono aggiungere 5 euro per il fondo pensioni, 3 euro circa per la cassa integrazione, due euro per l’indennità economica di malattia, il prelievo dello 0,9% per la cassa integrazione straordinaria e il prelievo Aspi (1,4%).

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Quindi, alla fine dei conti, le aziende pagano una volta e mezza quanto dovuto ai dipendenti, una cifra che va tutta nelle tasche dello Stato e, per come è la situazione attuale dell’Italia, non serve certo a dare garanzie a lungo termine né ai lavoratori né alle aziende.

L’Ilva chiede la cassa integrazione per circa 6.500 dipendenti

L’Ilva segue l’esempio della Fiat di Pomigliano e batte cassa allo Stato. L’azienda di Taranto ha chiesto due anni di cassa integrazione per la ristrutturazione e per circa 6.500 dipendenti. Per attuare gli obblighi di bonifica ambientale, che sono previsti dall’Autorizzazione integrata ambientale, l’azienda e i sindacati hanno quindi comunicato la richiesta di cassa integrazione.

Novità processo Salva-Ilva

I sindacati hanno detto che la cassa integrazione riguarda 957 impiegati della produzione della ghisa, 940 lavoratori dell’acciaieria, 607 che si occupano di tubi e rivestimenti, 1,574 lavoratori della laminazione, 1.249 che fanno parte dei servizi di staff e 1.070 che si occupano di manutenzione. L’azienda ha circa 10.000 impiegati e gli altri 4.000 lavorano nell’area a caldo e dovrebbero continuare a farlo.

Il Governo prova a salvare l’Ilva

La nota dell’Ilva dice: “Il piano di ristrutturazione aziendale presentato dalla società prevede anche la chiusura di alcune linee produttive, in particolare dell’altoforno 1, già chiuso, e dell’altoforno 5. Con tale richiesta, l’azienda conferma l’impegno previsto dall’Autorizzazione integrata ambientale”.

Il segretario generale della Uilm Rocco Palombella ha detto: “Sono numeri drammatici. Adesso si aprirà la trattativa sindacale per attenuare la cifra per la rotazione, la formazione e eventuali contratti di solidarietà. Sono numeri che prevedono per due anni lacrime e sangue ma è anche vero che investimenti per la bonifica significano anche che l’Ilva non chiuderà e quindi tra due anni ci sarà nuovo lavoro”.

Metà dell’Imu è stata pagata dalle aziende

 L’incasso dell’Imu per il 2012 è stato di circa 24 miliardi di euro. Un gettito superiore alle attese, che sembra essere stato portato, per almeno una metà, da quanto hanno versato le imprese italiane.In totale le imprese italiane hanno pagato 11,7 miliardi di euro, il 49,4% del gettito Imu del 2012. Il calcolo è stato fatto dalla Confesercenti  che ha precisato che rispetto alla vecchia imposta sugli immobili, alle società e alle ditte individuali del nostro paese, l’Imu è costata mediamente 1.800 euro in più rispetto all’Ici.
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Nello specifico le imprese hanno contributo con 6,5 miliardi che arrivano dagli immobili strumentali di proprietà di imprese costituite come società e 5,2 miliardi per immobili strumentali di proprietà di ditte individuali.

Queste ditte – sottolinea la Confesercenti – sono soggette ad Irpef, e considerate quindi alla stregua di persone fisiche: pertanto abbiamo stimato la quota di gettito Imu proveniente da negozi, botteghe, uffici e immobili ad uso produttivo di proprietà di persone fisiche.

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Il prelievo lordo aggiuntivo, spiega la Confesercenti, è stato di 6,1 miliardi rispetto ai 5,6 miliardi di euro che sarebbero stati versati se fosse stata ancora in vigore l’Ici, che rappresenta, per ogni azienda un aumento del 90,4%.

 

Imprese italiane travolte dalla crisi

 104 mila sono un numero altissimo. Ma è questo l’ammontare delle aziende che durante lo scorso anno hanno dovuto chiudere i battenti.

A dirlo è l’analisi del Cerved, secondo la quale nel 2012 ci sono stati 12.000 fallimenti, 2.000 procedure non fallimentari e 90.000 liquidazioni.

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Secondo il Cerved il 2012 è stato l’anno che ha messo più a dura prova le aziende italiane, con una particolare sofferenza rilevata soprattutto nei settori distintivi del made in Italy (moda e sistema casa). Per questo inizio 2013 il trend non sembra migliorare e si sta assistendo ad una esplosione dei concordati preventivi, nati con la riforma entrata in vigore a settembre. Negli ultimi quattro mesi del 2012 ne sono stati registrati ben 1.000, la stessa cifre registrata lungo tutto il corso dell’anno precedente.

Secondo Gianandrea De Bernardis, amministratore delegato Cerved

Il picco toccato l’anno scorso in particolare dai fallimenti supera del 64% il valore registrato nel 2008, l’ultimo anno precrisi: sono stati superati anche i livelli precedenti al 2007, quando i tribunali potevano dichiarare fallimenti anche per aziende di dimensioni microscopiche.

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Analizzando nel dettaglio la situazione i comparti che hanno sofferto di più sono stati il sistema casa (7,9%), la moda (7,1%), la produzione di beni intermedi (5,5%) e la meccanica (5,1%). Dal punto di vista territoriale la crisi nata nel 2008 ha colpito maggiormente il Nord (3,5% nel Nord Ovest e 3,2% nel Nord Est), rispetto al Centro-Sud (2,7%).

 

Consumi giù di 45 miliardi in due anni

 E’ questo quanto emerge dalle ultime stime di Confesercenti, che mettono insieme i dati sui consumi dello scorso anno, che sono scesi di 35 miliardi di euro, e quelli di quest’anno, per il quale è stato stimato un ulteriore calo di 10 miliardi.Quindi, nel biennio 2012-2013, il calo dei consumi degli italiani si attesterà a meno 45 miliardi, che equivalgono ad una diminuzione della spesa per ogni famiglia pari a circa 2000 euro. Il tutto, ovviamente, a danno delle piccole e medie imprese.

► I consumi sempre in diminuzione con un leggero miglioramento

La colpa maggiore di questo crollo dei consumi è da imputare alla pressione fiscale -il prelievo fiscale previsto per l’anno in corso, con l’introduzione delle nuove imposte Imu, Tares e Ires, sarà complessivamente di 34 miliardi di euro- che peserà per 800 euro a famiglia.

Se lo stesso conto si applica alle aziende, già messe in ginocchio dalla crisi dei consumi, si ha una pressione fiscale pari a 14 miliardi, pari a 3000 euro per ogni azienda.

Ciò che il governo ha fatto per risollevare le sorti dell’economia, almeno secondo la Confesercenti, potrebbe invece rivelarsi un’ulteriore spinta verso la recessione. Infatti, questa pressione fiscale, andrà ad incidere sul Pil per lo 0,7%.

► Paniere dei consumi 2013

Secondo Marco Venturi, presidente dell’associazione, l’unica soluzione a questo problema è il taglio alle spese, attraverso il quale potrebbero essere recuperati ben 70 miliardi, con i quali ridurre la pressione fiscale e ridare ossigeno a famiglie e imprese.

Esuberi Benetton

 In questi giorni si parla molto della crisi che ha colpito Electrolux, multinazionale svedese specializzata in elettrodomestici. Una situazione simile, se non altro per quanto concerne i tagli che verranno, interessa l’italiana Benetton. Per la prima volta, il progetto di trasformazione reso pubblico dall’azienda non è stato approvato dai sindacati, che lo hanno interpretato come una “mazzata senza precedenti”.

Il piano contempla ben 450 esuberi, 228 dei quali sono situabili nelle sedi di Ponzano Veneto e Castrette di Villorba. Gli altri 280 sono relativi ad assunzioni diffuse in tutta Italia nella rete vendita.

Crisi?

Il totale degli esuberi è decisamente maggiore rispetto alle indiscrezioni. Inizialmente si parlava di un centinaio di addetti interessati ai tagli. Oggi invece si scopre che l’azienda potrebbe usare le maniere forti, inaspettatamente. Il taglio dovrebbe andare a colpire più di cento di sviluppatori di prodotto. I rimanenti operatori sotto contratto che rischiano il posto sono invece tecnici e impiegati.

Un numero simile di lavoratori dovrebbe essere “tagliati” nelle varie filiali fuori dall’Italia. Benetton ha anche dichiarato apertamente che ha intenzione di rescindere i contratti di fornitura a fronte di 135 laboratori terzisti, soprattutto di quelli locati in Veneto.L’amministratore delegato  Biagio Chiarolanza, al quale è stata affidata la rimodulazione degli organici, ha dichiarato che la misura “non era più rimandabile” se si voleva provare ad effettuare un rilancio dell’azienda a lungo termine.

Le difficoltà del gruppo che ha segnato la storia dell’abbigliamento Made in Italy, nell’ultimo anno, sarebbero connesse in particolar modo alla flessione dei consumi in paesi come l’Italia e la Spagna. Due mercati importantissimi nel contesto del fatturato tradizionale di Benetton.

 

Crisi Electrolux

 Finiscono nel baratro della crisi anche due grosse aziende come Electrolux e Benetton, mettendo a repentaglio dunque il Nord. Si tratta, quasi, di una prima volta.

Per quanto concerne Electrolux, multinazionale svedese Electrolux, nella giornata di oggi sono stati annunciati dai sindacati a Mestre ben 1.129 esuberi in quattro filiali italiane del gruppo.

Esuberi

Nello specifico gli esuberi sono così suddivisi: sono 295 esuberi nello stabilimento friulano di Porcia (in provincia di Pordenone), 373 nello stabilimento di Susegana (in provincia Treviso), 200 nell’area produttiva di Forlì e 261 a Solaro (in provincia di Milano).

Il numero complessivo ingloba 597 esuberi che dovranno essere smaltiti. Succederà con l’attivazione del piano di ristrutturazione del 2012. Vi sono poi degli esuberi già individuati per il triennio 2013-2015, in virtù dei dati di vendita che fanno registrare una drastica riduzione sulle vendite all’interno del mercato europeo.

Prossimo aggiornamento

Il segretario Fim per il Friuli Venezia Giulia, Cristiano Pizzo, ha dato alle parti appuntamento al mercoledì 20 febbraio, per un ulteriore aggiornamento. In quella data si entrerà nel merito della gestione degli esuberi.

Intanto, Electrolux ha dichiarato che non farò ricorso ai licenziamenti. Nel contempo i sindacati vorrebbero proporre la soluzione dei contratti di solidarietà.

Crisi

L’annuncio della crisi in cui versa la multinazionale specializzata in elettrodomestici era stato già dato durante la settimana scorsa. A rilevare le difficoltà erano stati i dati mondiali sulle vendite.

Daiti

Electrolux ha fatto registrare un quarto trimestre 2012 da record, comprensivo di un tasso di crescita del 7,5% che si inserisce in un incremento totale annua del 5,5%, in virtù delle performance di Nord America e America Latina, le quali danno il 50% del fatturato. In aumento anche l’Asia e i mercati emergenti; ma sul conto finale pesava la nota stonata dell’Europa, con le vendite in decisa flessione.