Draghi è l’uomo dell’anno per ‘The Times’

Va al presidente della Bce, Mario Draghi il titolo di Uomo d’affari dell’anno. Il Presidente della Banca Centrale europea è stato nominato con questo illustre riconoscimento dal ‘The Times’ quotidiano britannico.

Secondo quanto affermato dal ‘The Times‘, Mario Draghi è il banchiere centrale che è riuscito a salvarsi dall’immenso caos dell’ultimo periodo economico e finanziario.

Sulle colonne del quotidiano inglese, inoltre, si legge che Mario Draghi è stato senza dubbio il “candidato incontrastato dando forza alla sua istituzione come una delle poche voci credibili nella zona dell’euro”.

Ma le parole sul Presidente della Banca Centrale Europea non finiscono qui. Sul suo conto il quotidiano ‘The Times’ ha aggiunto: “Mario Draghi è riuscito a dare la scossa ai mercati, elevandosi sopra i battibecchi dei leader politici europei per salvare l’euro dalla disintegrazione”.

Ora, però, per Mario Draghi, carico di questa forte responsabilità proveniente dall’incoronazione di uomo d’affari dell’anno del tabloid, arriva la sfida più difficile. Quale: traghettare l’Europa fuori dalla cocente crisi nel corso del prossimo anno. Più volte il Governatore della Banca Centrale europea ha fatto sapere che la missione da compiere avrà dei tempi molto lunghi, e che con ogni probabilità la risalita prevista non arriverà prima del 2014.

 

 

Fiscal Cliff, accordo ancora lontano

L’America rischia grosso e il tempo sta per scadere. Per il Fiscal Cliff è necessario trovare un’intesa entro questa sera. Se così non fosse, il 2013 arriverebbe con una bruttissima notizia per la popolazione: aumento delle tasse ad libitum e tagli alla spesa.

L’accordo tra i Repubblicani e i Democratici sembra, però, essere ancora molto lontano.

Barack Obama dà la colpa ai repubblicani, rei di non dare la propria disponibilità per il raggiungimento di un eventuale compromesso. I negoziati sono iniziati con il piede sbagliato, proprio all’indomani della rielezione del Presidente.

Tutto lascia presagire che i Repubblicani vogliano mettere a priori i bastoni tra le ruote alla gestione Obama.

Entrando nel dettaglio, la lotta si gioca sul fronte delle imposte per i redditi più alti.

I democratici vorrebbero aumentare infatti le imposte a coloro che superano annualmente i 250.000 dollari.

I repubblicani si oppongono. Il compromesso, nella migliore delle ipotesi, potrebbe essere trovato nell’aumento delle imposte entro la soglia dei 400.000 dollari su base annua.

RISCHIO RECESSIONE

Se democratici e repubblicani non si accordano gli Usa potrebbero piombare nel baratro della recessione. Succederebbe infatti che da domani ci sarebbe l’avvio dei tagli automatici alla spesa. Tagli per un valore di 1.200 miliardi. Inoltre, si verificherebbe in automatico l’aumento delle tasse per tutti i contribuenti nonché il rischio per il sussidio di disoccupazione.

Germania: la crescita sarà lenta, ma ci sarà anche nel 2013

 E’ questo ciò che prevede Hans Heinrich Driftmann, presidente dell’Associazione delle Camere di Industria e Commercio (Dihk), alla ‘Frankfurter Allgemeine Zeitung’ (Faz). Secondo Driftmann, infatti, il 2013 la crescita dell’economia tedesca sarà dello 0,7%. Una crescita lenta, ma pur sempre una crescita che eviterà al paese lo spauracchio della recessione.

La Germania, quindi, continua a dimostrare di essere il paese dall’economia più solida in questa parte di Europa, un paese in cui la crisi è arrivata ma che ha avuto tutte le carte in regola per evitare i danni peggiori, soprattutto quelli che la recessione porta al mercato del lavoro, che in Germani resterà solido e che, anzi, prevede tra i 150mila e 200mila nuovi posti di lavoro, soprattutto nel settore dei servizi.

Non è in discussione l’uscita dell’euro. Nonostante negli ultimi tempi si siano levate molti voci, soprattutto a livello internazionale, che vedono nell’abbandono della moneta unica la vera soluzione per uscire dalla crisi, Driftmann parla di un ritorno al marco come di un passo indietro nella costruzione del mercato unico e della libera circolazione delle merci, soprattutto per l’economia tedesca dove le esportazioni sono una buona fetta del Pil.

 

In Spagna aumentano i salari minimi, ma anche i pignoramenti e gli sfratti

 La Spagna sta attraversando un momento davvero complicato. La sua situazione economica è sull’orlo del baratro e, nonostante gli aiuti che giungeranno dall’Unione Europea, il paese è ancora in una situazione di stallo che non prevede miglioramenti nel breve termine.

Per questo il governo spagnolo è tornato sulle sue decisioni e ha proposto un aumento dei salari minimi dello 0,6% a partire dal primo gennaio 2013. I salari base, infatti, erano stati congelati per tutto il 2012 (l’ultimo aumento risale al 2011 quando al governo c’era Zapatero), ma ora, per dare modo alla popolazione di resistere in qualche modo alla crisi, saranno portati dagli attuali 641,40 euro a 645,30, per tentare di recuperare, almeno in parte, la perdita del potere d’acquisto sceso del 4,6% dal 2010.

Ma lo stipendio non è l’unica preoccupazione della Spagna: su base annua è stata evidenziato un aumento degli sfratti (+15,9%) e dei pignoramenti (+18,3%) delle case e delle aziende agricole locali: la crisi non permette più alle famiglie e ai piccoli imprenditori di far fronte ai debiti contratti per l’acquisto delle abitazioni. Stando a quanto riportato dalle autorità giudiziarie iberiche, solo nei primi tre mesi del 2012 sono state predisposte 49.702 procedure di sfratto e 67.537 per il pignoramento.

Nuovo incontro sul Fiscal Cliff

 L’incontro tra democratici e repubblicani era previsto per il 30 dicembre, ma Obama ha ritenuto opportuno accorciare i tempi e già questa sera ci sarà un primo incontro con i rappresentanti del Congresso. Il tema è sempre lo stesso: trovare un accordo per ridurre il debito del paese e riuscire così ad evitare che scattino automaticamente, a decorrere dal I gennaio 2013, i tagli alla spesa pubblica che metterebbero in serio pericolo la sopravvivenza della classe media a stelle e strisce.

Infatti, proprio ieri è arrivato il monito del Tesoro degli Stati Uniti che avverte che il tetto del debito pubblico sarà raggiunto già prima del 31 dicembre, e non durante il corso del prossimo anno come previsto nel 2011 dall’accordo fatto tra le due fazioni opposte, che però prevedeva anche che entro la stessa data venissero approvate nuove misure per ridurre il deficit (ora è all’8%) e il debito (arrivato ad oltre il 70% del Pil).

Se tutto questo non avverrà, verranno tagliati circa 600 miliardi di dollari al welfare (tra sussidi di disoccupazione, taglia i trasporti e riduzione del personale di sicurezza) e saranno aumentate le tasse sui salari del 2%. Questo vuol dire che l’economia del paese potrebbe perdere 3 punti di Pil, ma vuol dire anche che il deficit della nazione si ridurrebbe al fino al 2% nel 2016: niente recessione, quindi, ma il costo sociale di un mancato accordo sarebbe davvero troppo alto.

Il Natale nero degli americani

 Il Natale è passato e gli Stati Uniti sperano che il periodo post vacanze sia meglio di quello appena trascorso, in modo particolare i commercianti che hanno passato il loro peggior Natale dal 2008, anno in cui gli Stati Uniti erano in recessione.

Dal 28 ottobre al 24 dicembre, secondo i dati di MasterCard Advisors SpendingPulse, le vendite sono aumentate solo dello 0,7%, a fronte di un +2% registrato lo scorso anno. La stima è in linea con le  altre che parlavano già nei mesi precedenti di una crescita debole, in un periodo in cui i rivenditori riescono a guadagnare circa la metà dei loro profitti annuali.

Le peggiori performance si sono avute nella zona dell’Atlantico, duramente colpita dall’uragano Sandy, ma gli americani tutti hanno frenato gli acquisti a causa delle preoccupazioni sul fatto che a Washington c’è ancora una grande incertezza sul raggiungimento di un accordo per evitare gli aumenti delle tasse e i tagli alla spesa. E’ Brian Sozzi, capo analista dei titoli azionari di NBG Productions ha dare il quadro della situazione:

Chi vuole il debito sulla carta di credito nel mese di gennaio, quando ci saranno il 2 per cento di controlli e un anno di aliquote fiscali più elevate sui redditi?

Toyota pagherà 1,1 miliardi di dollari, ma non si ferma la sua corsa sul mercato automobilistico

 Si è conclusa la class action contro la casa automobilistica giapponese che ha accettato di pagare più di un miliardo di dollari per risarcire gli automobilisti americani.

La somma che la Toyota sborserà per rimborsare tutti coloro che hanno acquistato delle auto difettose – auto che improvvisamente acceleravano perché il pedale rimaneva incastrato nel tappetino per un difetto di progettazione – servirà sia per installare dei nuovi sistemi di sicurezza sulle auto e per rimborsare i 16 milioni di americani che hanno partecipato alla causa collettiva.

Il tribunale federale di Santa Ana, in California, ha deciso di chiedere alla casa automobilistica la cifra più alta mai richiesta in simili circostanze, ma questo non ferma la corsa della Toyota sul mercato, che si appresta a tornare la prima casa automobilistica al mondo e punta su vendite record nel 2013.

Per il prossimo anno la Toyota ha infatti stimato una crescita delle vendite del 2%, per un totale di 9,91 milioni di veicoli, dopo un 2012 che si è concluso con un +22% (9,7 milioni di automobili immatricolate). Un risultato che permette alla casa nipponica di ottenere il titolo di campione di vendite, superando agevolmente General Motors e Volkswagen, soprattutto grazie all’aumento della domanda negli Stati Uniti e in Asia.

Usa, allarme per il debito e per il Fiscal Cliff

 Vacanze più brevi del previsto per il Presidente americano Barack Obama. Il Tesoro degli Stati Uniti ha previsto che il tetto del debito sarà raggiunto non durante il corso del prossimo anno come previsto nel 2011, ma si arriverà a quota 16.400 miliardi di dollari già entro il 31 dicembre.

Questo vuol dire che, a meno di 5 giorni dal Fiscal Cliff, per Obama si presenta una nuova sfida, forse anche più importante, cioè quella di evitare il default del paese.

Il Ministro del Tesoro Timothy Geithner ha spiegato che si adotteranno delle misure straordinarie per riuscire a posticipare il default. E’ necessario trovare 200 miliardi di dollari, in modo che la cifra massima prevista per il debito non venga raggiunta.

Non è ancora stato chiarito di che tipo di manovre si tratta né di quanto tempo queste misure resteranno in vigore, quel che è certo è che i giorni a disposizione sono davvero pochi e dopo l’ennesimo fallimento delle trattative tra democratici e repubblicani, con la bocciatura del piano di emergenza dello speaker della camera Bohener, allontana sempre di più le speranze di arrivare ad un accordo.

Il presidente Obama, già da queste ore, è al lavoro per cercare una soluzione, ma il popolo americano sta perdendo la fiducia: secondo gli ultimi sondaggi, la percentuale degli americani che crede ancora che si troverà l’accordo è scesa di 7 punti percentuali.

 

Obama spinge per il raggiungimento di un mini-accordo anti Fiscal Cliff

 Il Fiscal Cliff americano è sempre più vicino e tutti i membri del Congresso ne sono consapevoli, ma questo non ha impedito ai repubblicani di rimandare al mittente il piano di emergenza redatto dallo speaker repubblicano della camera  John Boehner.

Obama, in partenza per le Hawaai dove passerà il Natale, chiede di raggiungere un mini accordo che possa salvaguardare il popolo americano da un aumento delle tasse di circa 2.200 dollari pro-capite, che andrebbe a influire sui consumi e sull’economia che si sta lentamente riprendendo.

Non c’è alcuna ragione per non tutelare gli americani. Almeno accordiamoci ora su quanto siamo tutti d’accordo.

Dal momento che, almeno sul fatto che gli americano non debbano subire un aumento generalizzato delle tasse solo perché gli eletti non riescono ad accordarsi sulla soglia minima alla quale applicare l’aumento delle aliquote, sia i democratici che i repubblicano la pensano allo stesso modo, Obama chiede che, in questi dieci giorni che mancano alla scadenza per il Fiscal Cliff, si riesca a raggiungere un accordo, seppur minimo.

Una manovra di emergenza che consentirebbe di poter prendere tempo per ulteriori dibattiti e proposte. Anche se il fallimento del piano di Bohemer ha allungato un’ombra scura sulle possibilità di dialogo tra le due fazioni opposte.

 

Con l’accordo tra Wall Street e l’ICe nascerà la prima Borsa mondiale

 La prima proposta dell’ICE (Intercontinental Exchange) per l’acquisto di Nyse Euronext è stato nel 2011, con un’offerta di 11,1 miliardi di dollari, ma l’accordo non fu raggiunto. La nuova proposta, invece, anche se più bassa – l’offerta per l’acquisto è di 8,2 miliardi di dollari – ha incontrato il favore di Wall Street.

Per ora si è giunti solo al consenso dei due consigli di amministrazione e il risultato finale dell’operazione si avrà solo entro la metà del 2013, se anche le autorità di regolamentazione dei mercati finanziari dell’Europa e degli Stati Uniti daranno il loro assenso. Nell’accordo si prevede il pagamento degli 8,2 miliardi di dollari per l’acquisto in contanti e in azioni della nuova società, di cui il 36% saranno date agli azionisti del Nyse.

Dal canto suo, l’ICE promette che sarà preservato il marchio Nyse Euronext e che la sede di Wall Street rimarrà quella tradizionale, come anche sarà mantenuto l’assetto dei vertici societari.

La vendita va a tutto vantaggio dell’ICE che, essendo specializzata nel trading di energia e commodity, con il controllo di Nyse può entrare nel mercato dei future di Londra, eliminando, di fatto, ogni possibili concorrenza.

Per questo si attende con trepidazione il giudizio delle varia autorità di vigilanza che, già nel 2011, furono contrarie alla fusione (all’epoca l’ICE si era alleata con il Nasdaq) proprio per il problema della tutela dell concorrenza sui mercati mondiali.