Geneve Invest fa il punto sulla crisi finanziaria Argentina

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 Sono passati pochi mesi da quando in tanti celebravano il ritorno dell’Argentina sul palcoscenico dell’economia globale. Negli ultimi due anni, Mauricio Macri, il presidente argentino dalle idee liberiste che ha dato nuovo impulso al paese sudamericano, è stato elogiato come l’uomo in grado di rimettere in sesto il settore finanziario di Buenos Aires. Di colpo, però, all’inizio di maggio, la luce si è spenta. Il peso, la moneta nazionale argentina, è crollato ai minimi storici e il ministro del tesoro non ha avuto altra scelta, se non quella di recarsi a Washington e chiudere un accordo con il Fondo Monetario Internazionale, per scongiurare l’estremizzazione di una crisi economica le cui proporzioni sono, già adesso, molto importanti. Che cosa è andato storto? Ne discutiamo con Neri Camici, esperto di mercati finanziari per Geneve Invest società indipendente di gestione patrimoniale con sedi a Ginevra e Lussemburgo.

“L’Argentina è interessata da anni da seri problemi economici, ma i suoi problemi strutturali sono sempre stati attutiti dal boom delle materie prime degli ultimi decenni, che hanno aiutato il paese a rimborsare quanto dovuto al Fondo Monetario Internazionale, sino a cancellare integralmente, nel 2007, il debito nei confronti dell’FMI. – spiega l’esperto di Geneve Invest – “Il problema è che l’economia argentina, che si era in qualche modo stabilizzata durante la presidenza di Néstor Kirchner, dal 2003 al 2007, è tornata a traballare sotto la guida della moglie, Cristina Fernández de Kirchner, che dal 2007 al 2015 – continuano da Geneve Invest – ha aumentato a dismisura la spesa pubblica, nazionalizzando decine di compagnie industriali. Inoltre, ha imposto il controllo del tasso di cambio, alimentando lo sviluppo di un mercato nero per i dollari e una forte distorsione dei prezzi.”

Mauricio Macri, eletto presidente nel 2015, ha costruito il suo successo sulla promessa di allentare il controllo statale sulla finanza, riportando l’Argentina in un’economia orientata al mercato, in cui fossero l’offerta e la domanda, e non lo Stato, a definire i prezzi. L’impegno di Macri si è profuso soprattutto in direzione degli investitori stranieri, con una campagna globale atta a migliorare la reputazione del paese e un piano strutturale per ridurre l’inflazione (ereditata al 40%) e contenere la spesa pubblica.

“Sull’onda delle riforme del presidente Macri – fanno il punto, ancora, da Geneve Invest – la Banca centrale Argentina ha emesso molte obbligazioni a breve termine, ampliando notevolamente l’emissione di Lebac (abbreviazione di Letras del Banco Central, Titoli del Banco Centrale), con tassi di interesse straordinariamente elevati. In questo modo si è sviluppato un meccanismo per cui gli investitori hanno prima potuto prendere in prestito dollari, per convertirli in pesos investendo in Lebac e speculando così sul differenziale del tasso di interesse, sperando il tasso di cambio restasse stabile. Questa strategia – continua Neri Camici di Geneve Invest –  è nota come carry trade e in Argentina è stata portata avanti sia da grandi banche, che da piccoli investitori. Il gioco è andato avanti sino alla metà di aprile, quando il mercato si è innervosito, preoccupato dal timore che il presidente Macri non sarebbe stato in grado di mantenere la promessa di limitare l’inflazione. Inoltre, con la prospettiva di aumento dei tassi di interesse da parte degli Stati Uniti – spiegano ancora gli esperti di Geneve Invest – in molti hanno fatto due conti, deciso che avevano guadagnato abbastanza in Argentina e che era ora di ricalibrare i rischi. In pratica, gli investitori hanno cominciato a temere che la scommessa su Buenos Aires stesse diventando sempre più rischiosa con il passare del tempo. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: nel giro di poche settimane il peso ha perso oltre un quarto del suo valore”.

Il governo argentino si è difeso sui mercati internazionali insistendo sul fatto che il problema principale del paese è legato alla mancanza di liquidità e non alla solvibilità, dichiarandosi perfettamente in grado di far fronte ai suoi obblighi finanziari. Per questo ha deciso di rivolgersi all’FMI: con il denaro del Fondo monetario internazionale, l’Argentina, secondo Macri, sarà in grado di intervenire nei mercati valutari più a lungo e anche sostenere le spese per le cedole di obbligazioni in arrivo per il pagamento. Il ricorso all’FMI non è ben visto dalla popolazione argentina, che affianca l’isituzione internazionale alla grande crisi del 2001, quando il governo, paralizzato, impose il blocco del sistema bancario e milioni di persone, dentro e fuori dall’Argentina, videro svanire nel nulla i risparmi guadagnati nel corso di tutta una vita.

“Oggi gli occhi di tutti sono puntati sul tasso di cambio, che attualmente si aggira intorno ai 23 pesos per dollaro, un minimo storico che manda un segnale preoccupante sulla  svalutazione della moneta sovrana argentina – spiegano in chiusura gli esperti di Geneve Invest – Il governo deve trovare un modo per convincere gli investitori a confermare gli investimenti sui LEBEC, altrimenti la corsa sul peso diventerà molto più caotica. Un altro test importante sarà la risposta del FMI alla richiesta dell’Argentina di diversi miliardi di dollari in prestito. La decisione di Macri di chiedere un accordo al Fondo Monetario Internazionale è rischiosa. Purtroppo – chiudono da Ginevra gli analisti di Geneve Invest – la realtà è che sotto la presidenza di Macri l’Argentina è passata dall’essere un’economia che si basava su una spesa statale esagerata a una struttura che fa affidamento sul debito contratto verso investitori stranieri molto volatili. Il tutto in un contesto nel quale l’inflazione non ha subito rallentamenti importanti. Il nostro consiglio, come sempre, è quello di fare attenzione. Ciò che sta accadendo in Argentina insegna, una volta di più, quanto sia importante fare attenzione ai mercati sui quali si investe. In tanti negli ultimi due anni si sono lanciati sui titoli argentini da soli, senza particolari verifichi, e il risultato è che oggi questi investimenti sono, ancora una volta, a rischio.”

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