Nelle liti fiscali non vale l’autocertificazione

 Molto spesso, soprattutto quando di svolge una libera professione, è facile non disporre di tutti i documenti necessari per certificare in modo uniforme redditi e spese, questo però, non vuol dire che si possano sostituire tutti i documenti con un’autocertificazione.

Per legge, l’autocertificazione, è valida soprattutto per spiegare la propria identità, quindi in riferimento ai dati anagrafici, ma non vale in altri settori, ad esempio, non può essere chiamata in causa nelle liti fiscali. Lo ha anche ribadito in una sentenza recente la Corte di Cassazione.

 173 milioni di euro dalle liti fiscali pendenti

Con la sentenza n. 1662 del 24 gennaio, infatti, la sezione tributaria di Piazza Cavour ha precisato che nei processi tributari l’autocertificazione non ha valenza probatoria e questa disposizione è già contenuta nell’articolo numero 7 del Decreto Legislativo del 1992 numero 546.  Usare l’autocertificazione nelle liti fiscali, equivale infatti a dire che non si hanno le prove testimoniali.

 Con i registri introvabili è bancarotta fraudolenta

I fatti che stanno alla base di questo pronunciamento riguardano una società cui era stato inviato un accertamento dall’Agenzia delle Entrate per il recupero delle somme Irpeg ed Ilor relative all’anno d’imposta 1997. La società aveva fatto ricorso alla Commissione tributaria della sua provincia ed aveva anche avuto ragione ma era stata poi l’Agenzia delle Entrate ad interpellare la Cassazione precisando che i documenti presentati nel ricorso non potevano essere considerati probatori.

Il mutuo può essere nullo

 Un contratto di mutuo può essere considerato nullo nel momento in cui il finanziamento erogato dalla banca è superiore all’80 per cento del valore dell’immobile. Il senso di questa disposizione è contenuto in una sentenza del Tribunale di Venezia ma affonda le radici in un malcostume finanziario.

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Negli anni, le banche, sono state molto permissive con gli aspiranti mutuatari, concedendo loro mutui in grado di coprire per intero le spese d’acquisto di un immobile. Soltanto a fronte di una difficoltà generalizzata nei rimborsi, ci si è resi conto che occorrevano i piedi piombo.

Rogita a tasso misto con Deutsche Bank

Così, per maggiore tutela delle banche creditrici e dei mutuatari stessi, è stato definito che l’importo del mutuo non doveva mai superare l’80 per cento del valore dell’immobile e poteva andare più in là soltanto a patto di fornire ulteriori garanzie. Il pronunciamento del Tribunale di Venezia arriva a definire nullo il mutuo che finanzia più dell’80 per cento del valore dell’immobile.

Il fatto da cui scaturisce la sentenza è quello di un mutuatario che ha acquistato un immobile importante, stimato 13 milioni di euro, chiedendo un mutuo di 7,5 milioni di euro che rappresentavano il 58% del totale. Il mutuatario, insolvente, ha richiesto l’intervento dei periti che hanno ritoccato le stime sull’immobile considerandolo del valore di 9,2 milioni di euro. A quel punto il mutuo concesso, di 7,5 milioni, era pari all’82% del valore dell’immobile e quindi se ne poteva stabilire la nullità.

A chi spettano le ritenute certificate

 Quando un contribuente si rivolge ad un sostituto d’imposta, in genere, sa che deve sempre controllarne l’operato perché la responsabilità dei documenti che il sostituto trasmette, resta a carico del contribuente. Eppure ci sono dei casi in cui questa specie di “scarica barile” non funzione.

► Con i registri introvabili è bancarotta fraudolenta

Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha spiegato infatti che il liquidatore di una Srl che non versa le imposte risponde al reato di dichiarazione fraudolenta, come reato imputato al liquidatore e non alla società. Questo accade anche nel caso in cui del versamento delle imposte sia stato incaricato il commercialista.

► Se la fattura è falsa non c’è alcuno sconto di pena

L’ordinanza che contiene questa spiegazione è del 7 gennaio 2013 e nasce da una sentenza in cui un liquidatore di una Srl è stato condannato alla reclusione. Il reato a lui imputato è quello di non aver versato le imposte risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituti, entro il termine ultimo della dichiarazione annuale dei sostituti d’imposta.

La Corte d’Appello ha confermato la prima sentenza ma l’accusato ha deciso di ricorrere alla Cassazione per due motivi: primo perché la sentenza sarebbe stata emessa contro di lui e non a carico dello stesso in qualità di liquidatore della società e secondo perchè non ci sarebbero responsabilità riguardo al reato da parte del sostituto d’imposta.

La Cassazione ha esattamente smontato queste due convinzioni.

Con i registri introvabili è bancarotta fraudolenta

 La normativa fiscale è stata aggiornata con una nuova sentenza della Corte di Cassazione, la numero 769 dell’8 gennaio del 2013, dove si parla del reato di bancarotta fraudolenta.

Bancarotta

I porporati hanno ribadito che nel caso in cui il titolare di una ditta individuale sopprima il libro giornale il libro degli inventari obbligatori, oppure faccia in modo che la curatela non possa ricostruire la situazione patrimoniale del contribuente, allora non si parla di bancarotta documentale semplice ma di bancarotta fraudolenta documentale.

La vicenda che sta alla base del pronunciamento risale al 2010 circa, quando è stata la Corte d’Appello di Palermo a confermare la conclusione del giudice per le indagini preliminari che aveva accusato la titolare di una ditta individuale, fallita nel 2004, per bancarotta fraudolenta.

Piano Alitalia per evitare la bancarotta

L’imputata aveva fatto ricorso chiedendo di essere giudicata per bancarotta documentale semplice, spiegando che non aveva commesso il reato che la corte le imputava, quello di falsificazione, distruzione o occultamento dei registri contabili obbligatori, perché nei tre anni precedenti al fallimento aveva operato nel regime di contabilità semplificata e per questo non aveva tenute le scritture contabili.

Nei primi due gradi di giudizio era stata giudicata colpevole nonostante le argomentazioni, per cui si è fatto ricorso alla Cassazione che però ha confermato i pronunciamenti precedenti.

Il contribuente è irreperibile ma l’indirizzo è uno solo

 Si chiama “procedimento degli irreperibili” ed è una notificazione particolare di un atto tributario. Questo procedimento, secondo la giurisprudenza attuale, è da considerarsi valido anche se il messo notificatore non riesce a reperire l’abitazione, l’ufficio o anche l’azienda del contribuente, quando questo ha definito in un certo comune il suo domicilio fiscale.

► Quando l’avvocato non è una spesa deducibile

Le ricerche in questione sono non sono necessarie al di fuori del comune di residenza della società del contribuente. Questo è il senso di una sentenza, la numero 23062 del 2012, quella con cui la Corte di Cassazione ha ribadito che l’Agenzia delle Entrate ha ragione riguardo la regolarità delle notifiche inviate prima delle cartelle di pagamento.

In pratica l’indirizzo del contribuente, seppure irreperibile, resta uno solo. L’amministrazione finanziaria non è tenuta a fare ulteriori ricerche fuori dal territorio di competenza del municipio.

► Ritrattare la dichiarazione non blocca gli accertamenti

Tutto il pronunciamento nasce in Sicilia dove un contribuente ha fatto ricorso contro 9 cartelle di pagamento relative a diversi tributi, spiegando all’amministrazione tributaria che la notifica degli avvisi di accertamento e delle carte non era avvenuta correttamente.

Il giudice tributario di Palermo, invece ha rigettato il ricorso ed ha spiegato che l’avviso di deposito dell’atto è stato regolarmente affisso nella casa comunale, in busta chiusa e sigillata.

► Legge fallimentare: riforma, notificazione telematica e PEC

Lo status di erede anche dall’atteggiamento concludente

 Un successore che si comporti in modo da accettare la pratica di successione, è automaticamente da considerare nella posizione fiscale di erede. Sembra quasi un gioco di parole ma di recente una sentenza della Commissione tributaria lombarda, ha dovuto ribadire il concetto.

In pratica si parla di “accettazione tacita di eredità” nel caso in cui un successore abbia attivato un procedimento di adesione, una volta ottenuta la notifica di un atto impositivo relativo alla posizione fiscale del defunto. E’ questa in sintesi la posizione dell’Erario contenuta nella sentenza n. 170 del 2012.

La sentenza parte da una serie di atti negoziali che possono indurre l’amministrazione finanziaria a pensare che ci sia un’accettazione tacita dell’eredità, in modo che si possa attribuire all’erede la legittimazione attiva e passiva rispetto ad obbligazioni tributarie del defunto.

L’Amministrazione finanziaria, infatti, ha bisogno di continuità sotto il profilo tributario e dopo il decesso di un contribuente deve individuarne un altro, l’erede, con cui completare e chiudere il rapporto. L’erede assume la titolarità dei rapporti giuridici di natura tributaria del defunto.

Secondo la Ctr di Milano, quindi, ci sono dei comportamenti del potenziale erede, che presuppongono la volontà di accettare l’eredità, e che quindi gli attribuiscono il diritto di farlo, nella pratica.

Tassa governativa cellulari: è legittima!

 Si discute della tassa governativa sui cellulari da oltre vent’anni. La prima norma che ha legiferato in proposito è stato il Dm 33/1990, vale a dire il Regolamento concernente il servizio radiomobile pubblico terrestre di comunicazione. L’ultimo pronunciamento sulla questione è arrivato dalla Suprema Corte pochi giorni fa per ribadire che la tassa governativa sugli abbonamenti dei cellulari è legittima.

La sentenza è la numero 23052 ed è stata registrata il 14 dicembre scorso. La Suprema Corte ha praticamente fatto qualcosa di “rivoluzionario” nel senso che ha ribaltato completamente il pronunciamento precedente spiegando che

“L’attività di fornitura di servizi di comunicazione elettronica, pur caratterizzata da una maggiore libertà rispetto alla normativa precedente, resta comunque assoggettata ad un regime autorizzatorio da parte della pubblica amministrazione, con la particolarità che il contratto di abbonamento con il gestore del servizio radiomobile si sostituisce alla licenza di stazione radio. Tale permanente regime autorizzatorio, pur contrassegnato da maggiori spazi di libertà rispetto al passato, giustifica il mantenimento della tassa di concessione governativa.”

Tutto nasce dalla richiesta inoltrata da parte di alcuni Comuni che fino a questo momento avevano anche ottenuto delle sentenze favorevoli, riguardo la richiesta di rimborso della tassa di concessione governativa sugli abbonamenti telefonici cellulari. 

La Cassazione ha rigettato così le istanze di rimborso e si è messa dalla parte dell’Amministrazione finanziaria.

Tutte le dichiarazioni aiutano il giudice

 Se alcuni testimoni sono ascoltati dal giudice in ambienti diversi da quelli del tribunale in merito ad un caso specifico, nell’ambito di un processo le loro dichiarazioni possono diventare probatorie.

E’ questo un po’ il senso della sentenza numero 21813 de 5 dicembre scorso con cui la Cassazione è tornata sull’argomento dell’usabilità o nella non utilizzabilità delle dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale.

Nel corso degli anni questo tema è stato oggetto di numerose sentenze: dal 2003 ad oggi se ne contano ben cinque in tutto. Ogni dichiarazione ha avuto come obiettivo quello quello di spiegare che tutte le dichiarazioni possono essere portate in giudizio dall’Amministrazione tributaria: sia quelle che ha reso il contribuente interpellato direttamente, sia quello addotte da soggetti terzi.

Tutte le dichiarazioni hanno valore indiziario ma prese da sole non servono a nulla. E’ poi necessario accompagnarle ad una prova certa, ma se questa arriva, le dichiarazioni rese da terzi possono aiutare il giudice a dirimere la questione.

Ecco la pronuncia in esame, così come è riportata da FiscoOggi:

Nel processo tributario le dichiarazioni del terzo, acquisite dalla G.d.f. e trasfuse nel processo verbale di constatazione, a sua volta recepito dall’avviso di accertamento, hanno valore indiziario, concorrendo a formare il convincimento del giudice. Il tutto, se riveste i caratteri all’articolo 2729 cod. civ., dà luogo a presunzioni semplici (artt.39 d.p.r. 600 e 54 d.p.r. 633), generalmente ammissibili nel contenzioso tributario, nonostante il divieto di prova testimoniale”

Se hai la partita IVA “risiedi in Italia”

 La Corte di Cassazione, con la sentenza numero 21380 del 30 novembre 2013 ha ribadito che un soggetto straniero che abbia ottenuto la partita IVA, ha in Italia una sua stabile organizzazione. Il concetto, che sembra molto immediato, non era condiviso a livello normativo.

Il fatto che ha reso necessaria la precisazione è una notifica inviata dall’Agenzia delle Entrate ad una società non residente del nostro paese per negarle il rimborso dell’IVA nonostante la regolare richiesta inviata dall’azienda.

La negazione è stata giustificata dal possesso di un codice fiscale e di una partita IVA italiani. Questi particolari hanno consentito all’Erario prima e alla Corte di Cassazione poi di presumere l’esistenza di un’organizzazione stabile nel nostro paese.

Il che vuol dire che non sono posseduti i requisiti elencati nell’articolo 38-ter del Dpr numero 633 del 1972 che dà diritto ai soggetti non residenti di chiedere il rimborso IVA.

Il rimborso Iva è accordato a tutti i soggetti domiciliati e residenti negli stati membri della Comunità UE nel caso in cui non abbiamo un’organizzazione stabile nel nostro paese. La società coinvolta nella diatriba ha presentato ricorso e ottenuto l’avallo della Commissione tributaria provinciale.

L’Agenzia delle Entrate ha impugnato la sentenza e il ricorso è stato accolto dalla Corte di Cassazione.

Quando gli eredi sono risarciti dal notaio

 Il tema su cui si è pronunciata questa volta la Corte di Cassazione è la dichiarazione di successione che deve essere inviata dal notaio che ha ottenuto il mandato per farlo dagli attori coinvolti nell’atto. In soldoni, la sentenza numero 21082 del 27 novembre 2012, spiega che il notaio deve risarcire gli eredi in caso di ritardo nella presentazione dell’atto di successione.

Il fatto alla base del pronunciamento. Un contribuente, in proprio e in qualità di legale rappresentante dei suoi figli non ancora maggiorenni, ha portato davanti al Tribunale di Roma il notaio che aveva incaricato di presentare la denuncia di successione.

La richiesta del contribuente era quella di accertare che la responsabilità del ritardo fosse del notaio e al tempo stesso obbligarlo a pagare le sanzioni pecuniarie definite dall’Agenzia dell’Entrate, tenuto conto della rivalutazione e degli interessi.

I porporati hanno accertato che l’incarico dato al notaio era pervenuto nel tempo utile a predisporre la dichiarazione e quindi il ritardo è esattamente responsabilità del notaio. Il Tribunale di Roma ha quindi condannato quest’ultimo al pagamento di un risarcimento al contribuente.

Il risarcimento era equivalente alla pena pecuniaria con gli interessi. Il notaio ha fatto ricorso in appello e spiegando i dettagli della pratica, la quale si è sviluppata in due step successivi, ha ottenuto una riduzione della pena e dovrà corrispondere al contribuente un risarcimento minore rispetto a quello definito dal giudice di primo grado.