I motivi del licenziamento per giusta causa: irreperibilità e cumulo di impieghi

 Licenziamento per giusta causa: irreperibilità alle visite di controllo

Se avete mandato un certificato di malattia al vostro datore di lavoro, ma non siete nel luogo indicato quando arrivano le visite di controllo (le visite fiscali) e, in più, continuate a mandare certificati per prolungare il periodo di assenza giustificata, il vostro datore di lavoro ha tutto il diritto di licenziarvi, perché la vostra condotta è volontariamente tesa a non permettere al datore stesso di verificare l’effettivo stato di malattia.

Lo stabilisce la sentenza della Corte di Cassazione n.  2003/2012.

► Cos’è il licenziamento per giusta causa?

Licenziamento per giusta causa: cumulo di impieghi durante la malattia

Un fatto, questo scontato, ma che la Corte di Cassazione ha tenuto a ribadire con la sentenza n. 20857 /2012. Il caso riguardava un dipendente statale che, nei giorni di assenza previsti dal certificato medico inviato al datore di lavoro, ha prestato servizio come commessa presso il negozio della sorella.

La legge, e il buon senso, vieta ai dipendenti subordinati delle Pubbliche Amministrazioni di cumulare impieghi o incarichi di lavoro, quindi il licenziamento per giusta causa a carico della dipendente pubblica è stato confermato.

Le stesse regole, però, vigono anche in tutti gli altri lavori, come deciso Corte di Cassazione – sentenza n. 16375/2012 – licenziato perché nel periodo di congedo per malattia ha svolto attività di buttafuori.

I motivi del licenziamento per giusta causa

Rallentamento del lavoro

Infedeltà all’azienda e scarso rendimento

Mancata comunicazione delle assenze e falsi certificati

Irreperibilità e cumulo di impieghi

Rifiuto del trasferimento

Outsourcing e ridimensionamento

Comportamenti scorretti nei confronti del datore di lavoro

Uso privato degli strumenti aziendali

Eccessi nella condotta professionale e privata

Uso improprio del telefono privato e aziendale

Altri motivi di licenziamento per giusta causa

I motivi del licenziamento per giusta causa: mancata comunicazione delle assenze e falsi certificati

Licenziamento per giusta causa: mancata comunicazione dell’assen za

Se, per un motivo qualunque, non si può andare al lavoro, è compito e dovere del lavoratore comunicare tempestivamente l’assenza al datore di lavoro.

Tutti i certificati medici o le prove che giustifichino, anche in maniera veritiera e plausibile, la propria assenza, non sono ritenute accettabili in un secondo momento. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza 10552/13, con la quale ha ratificato il licenziamento di un lavoratore assente ingiustificato per una settimana.

Nonostante al suo rientro il lavoratore abbia fornito tutte le prove per giustificare la sua assenza (referti ospedalieri e certificati medici), la mancata comunicazione della sua assenza ha leso il rapporto di fiducia tra di lui e il suo datore.

► Cos’è il licenziamento per giusta causa?

Licenziamento per giusta causa: certificato medico ‘modificato’

È il medico a stabilire la giusta durata della malattia. Il certificato medico non può essere corretto in alcun modo dal lavoratore.

Lo dice la sentenza n.14998/2012 della Suprema Corte di Cassazione che ha ratificato il licenziamento di un lavoratore che aveva corretto la data sul certifico medico presentato in azienda per allungare la sua assenza dal lavoro, giustificando la correzione con un presunto errore nella compilazione del certificato fatto dall’Asl di riferimento.

I motivi del licenziamento per giusta causa

Rallentamento del lavoro

Infedeltà all’azienda e scarso rendimento

Mancata comunicazione delle assenze e falsi certificati

Irreperibilità e cumulo di impieghi

Rifiuto del trasferimento

Outsourcing e ridimensionamento

Comportamenti scorretti nei confronti del datore di lavoro

Uso privato degli strumenti aziendali

Eccessi nella condotta professionale e privata

Uso improprio del telefono privato e aziendale

Altri motivi di licenziamento per giusta causa

I motivi del licenziamento per giusta causa: infedeltà all’azienda e scarso rendimento

 Tra i motivi del licenziamento per giusta causa, ossia il licenziamento che non prevede preavviso da parte del datore di lavoro e che viene utilizzato quando la condotta privata e professionaledel lavoratore mette in pericolo gli interessi del datore di lavoro o lede il necessario rapporto di fiducia tra le due parti, ci sono l’infedeltà all’azienda e lo scarso rendimento.

► Cos’è il licenziamento per giusta causa?

Licenziamento per giusta: infedeltà all’azienda

È successo ad un ufficiale di una società che si occupa della riscossione dei tributi. L’ufficiale, il cui compito era la notifica delle cartelle e il recupero delle somme, invece di svolgere il suo compito, dava consiglia ai debitori su come evitare le riscossioni forzate.

Con la sentenza n. 10959/2013 della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, basando la sua decisione sul protrarsi nel tempo della condotta scorretta del lavoratore.

Licenziamento per giusta: scarso rendimento sul posto di lavoro

Diversamente da come si crede, il posto fisso non dà il diritto a non portare avanti il proprio lavoro. Lo sentenzia la Corte di Cassazione (sentenza 43412/2010).

A farne le spese è stato un addetto alla frontiera che aveva lasciato la sua postazione di controllo per riposare nel gabbiotto. Per lui la Corte ha deciso che il licenziamento voluto dal datore di lavoro fosse legittimo.

I motivi del licenziamento per giusta causa

Rallentamento del lavoro

Infedeltà all’azienda e scarso rendimento

Mancata comunicazione delle assenze e falsi certificati

Irreperibilità e cumulo di impieghi

Rifiuto del trasferimento

Outsourcing e ridimensionamento

Comportamenti scorretti nei confronti del datore di lavoro

Uso privato degli strumenti aziendali

Eccessi nella condotta professionale e privata

Uso improprio del telefono privato e aziendale

Altri motivi di licenziamento per giusta causa

I motivi del licenziamento per giusta causa: rallentamento del lavoro

 Un caffè può portare al licenziamento per giusta causa. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 7819/2013. Il caso è stato quello di un impiegato di banca che si è preso una pausa dal lavoro nonostante alla cassa di sua competenza fossero in attesa ben 15 persone.

Il licenziamento per giusta causa è utilizzato dal datore di lavoro in caso di inadempimenti gravi del lavoratore, non solo contrattuali. In questo caso, la Corte di Cassazione ha dato ragione all’istituto bancario, confermando il licenziamento e condannando il lavoratore anche al pagamento di una sanzione di 3.500 euro più le spese processuali.

Cos’è il licenziamento per giusta causa?

Il primo motivo riconosciuto dalla Cassazione, in questo caso, è stato il rallentamento delle attività di cassa, anche se il dipendente aveva lasciato il compito della gestione della sua cassa ai colleghi.

Poi, come da legislazione, questo tipo di comportamento è stato ritenuto lesivo degli interessi del datore di lavoro – in questo caso si tratta di interessi patrimoniali – ed è aggravato dalla lesione degli interessi pubblici, dal momento che il lavoratore, in questo caso, si trova ad amministrare soldi non suoi, ma dei clienti che ripongono la massima fiducia nella banca della quale scelgono di diventare clienti.

I motivi del licenziamento per giusta causa

Rallentamento del lavoro

Infedeltà all’azienda e scarso rendimento

Mancata comunicazione delle assenze e falsi certificati

Irreperibilità e cumulo di impieghi

Rifiuto del trasferimento

Outsourcing e ridimensionamento

Comportamenti scorretti nei confronti del datore di lavoro

Uso privato degli strumenti aziendali

Eccessi nella condotta professionale e privata

Uso improprio del telefono privato e aziendale

Altri motivi di licenziamento per giusta causa

Cos’è il licenziamento per giusta causa?

 Per licenziamento per giusta causa si intende il licenziamento che avviene per volontà del datore di lavoro in caso di un inadempimento del lavoratore ritenuto abbastanza grave da non permettere la prosecuzione del rapporto di lavoro, anche solo in via temporanea.

Il licenziamento per giusta causa non prevede che il datore di lavoro dia al lavoratore il preavviso riconosciuto per legge, anche quando si tratta di un contratto di lavoro a tempo indeterminato, in quanto questo tipo di licenziamento viene utilizzato quando viene meno il necessario rapporto di fiducia tra lavoratore e datore di lavoro.

Il licenziamento per giusta causa è una sanzione disciplinare, anzi, la sanzione disciplinare per eccellenza della quale può avvalersi il datore di lavoro. Riferendosi alla disciplina, quindi, il licenziamento per giusta causa non si utilizza solo in caso di inadempimenti contrattuali da parte del lavoratore, ma anche nel caso in cui i comportamenti del lavoratore ledano gli interessi del datore di lavoro.

Nella maggior parte casi, quando un lavoratore dipendente viene licenziato per giusta causa, si arriva alle vie legali. Un iter spesso lungo e dispendioso, che, passando per i vari gradi di giudizio arriva quasi sempre in Cassazione.

La percentuale dei casi nei quali la Cassazione ha dato ragione ad un lavoratore è più bassa di quella delle vittorie del datore di lavoro, proprio per la varietà dei comportamenti che possono essere ritenuti lesivi degli interessi del datore di lavoro e, di contro, la scarsità delle giustifiche ritenute valide dalla Corte.

I motivi del licenziamento per giusta causa

Rallentamento del lavoro

Infedeltà all’azienda e scarso rendimento

Mancata comunicazione delle assenze e falsi certificati

Irreperibilità e cumulo di impieghi

Rifiuto del trasferimento

Outsourcing e ridimensionamento

Comportamenti scorretti nei confronti del datore di lavoro

Uso privato degli strumenti aziendali

Sempre necessario il contratto d’appalto

 Cosa dimostra al fisco che un’azienda che ha vinto l’appalto per la fornitura di un servizio ha effettivamente offerto questo servizio tanto da aver sostenuto dei costi da portare in dichiarazione?

Cosa succede nel caso di vendita anticipata della prima casa

Una domanda che nasconde il dubbio dell’amministrazione tributaria in merito alla liceità di alcune operazioni portate a termine dalle ditte di servizi. La Corte di Cassazione, chiamata ad esprimersi in merito ad una vicenda particolare, con l’ordinanza numero 7897 del 28 marzo ha spiegato che per la deduzione d’imposta riguardo i redditi per lavori edili, è necessario sempre il contratto d’appalto.

Il fatto riguarda una società cui era stato chiesto il di versare una tassa relativa a costi non riconosciuti per Irpeg e Ilor. Il giudice del riesame dopo l’appello favorevole all’azienda da parte della Commissione tributaria regionale, ha spiegato che i costi relativi alla costruzione di un capannone erano deducibili sulla base delle fatture regolari presentate dall’azienda.

I kit omologati non escludono l’inerenza

L’Amministrazione tributaria, non contenta, è ricorsa in cassazione e lì i porporati hanno spiegato che il contratto d’appalto deve essere sempre presente in forma scritta, insieme alle fatture che riguardano elementi identificativi del rapporto tra due aziende. Quindi le fatture sono idonee ma da sole non bastano.

Il caffè che vale il licenziamento

 Impossibile rinunciare alla pausa caffè. E comunque tutti i contratti di lavoro prevedono che il lavoratore, secondo i criteri stabiliti dal contratto stesso, abbia diritto a concedersi qualche minuto di riposo, senza incorrere in nessuna conseguenza. Ma ci sono dei casi in cui la pausa caffè può valere il posto di lavoro.

► Sentenza della Corte di Cassazione su controlli per locali ad uso promiscuo

Lo ha deciso la Corte di Cassazione: sono passibili di licenziamento tutti quei lavoratori che, allontanandosi dalla propria postazione, causino dei rallentamenti al normale svolgimento del servizio.

Il caso è stato portato in tribunale da un lavoratore licenziato di una sede siciliana del Credito Emiliano. Il lavoratore, in data 27 novembre 1997, ha abbandonato lo sportello per prendere il caffè, senza aver portato a termine un’opera finanziaria dal valore di 250 mila euro. Appreso il disservizio, la banca ha proceduto con il licenziamento.

Il lavoratore si è allora rivolto alla Suprema Corte, nella speranza di avere indietro il suo posto di lavoro, ma, con la sentenza 7819 la Cassazione ha confermato il provvedimento del datore di lavoro, anche se, come spiegato nella difesa, al momento erano operative altre casse. Secondo la Cassazione, però:

► L’imprecisione autorizza il risarcimento del consulente

La presenza di una pluralità di casse non esclude che il venir meno di una cassa rallentava le operazioni delle altre sulle quali venivano dirottati i clienti in fila. La giusta causa di licenziamento di un cassiere deve essere apprezzata con riguardo non soltanto all’interesse patrimoniale della banca, ma anche alla potenziale lesione dell’interesse pubblico alla gestione del credito.

Anche se non c’è il difensore ci si può informare

 La Corte di Cassazione ha stabilito con la sentenza numero 1352 del 31 gennaio che se la Guardia di Finanza durante gli accertamenti, chiede informazioni al contribuente indagato per evasione fiscale, quando non è presente il suo difensore, può comunque usare le informazioni carpite per l’accertamento.

“Non parlerò se non in presenza del mio avvocato” è quindi una frase che potremo sentire soltanto nei film, oppure dalla bocca di qualche cittadino non informato sulla nuova normativa fiscale.

 Nessun aiuto fiscale ai ritardatari

Il fatto che ha generato il pronunciamento dei giudici di Piazza Cavour, risale al 1997 quando l’Amministrazione finanziaria aveva inviato degli avvisi di accertamento ad un contribuente relativi a dichiarazioni già presentate dallo stesso nel 1990, 1991 e 1992.

► Le intestazioni di comodo non piacciono al Gip

Non è tanto il fatto in sé a sorprendere, quanto piuttosto che l’accertamento si fosse fondato su dei particolari raccolti durante le indagini finanziarie che erano seguite alla notifica. Il contribuente, nel dettaglio, aveva fatto delle dichiarazioni alle fiamme Gialle, relative ai movimento del suo conto corrente, facendo pensare che potesse avere in Italia un’attività imprenditoriale.

Il contribuente ha fatto ricorso contro gli accertamenti spiegando che l’Amministrazione finanziaria aveva agito in modo illecito, acquisendo informazioni quando il contribuente non era in presenza del suo difensore. Il ricorso del contribuente è stato respinto dai giudici che lo hanno anche condannato al pagamento delle spese processuali.

Nessun aiuto fiscale ai ritardatari

 Il cittadino che non sappia rispettare i tempi dettati dal Fisco, non può beneficiare degli sconti previsti dall’Agenzia delle Entrate. A ribadirlo è un provvedimento dell’Erario del 24 gennaio 2003. In pratica, se un contribuente aveva diritto ad un incentivo e non ha rispettato i termini d’ammissione al beneficio, poi non può piangere sul latte versato.

Bisogna andare indietro di 10 anni per scoprire il riferimento normativo. Nel 2003 era stata infatti stabilita una correlazione tra la fruizione degli incentivi fiscali legati all’investimento nelle aree svantaggiate e i tempi della comunicazione dei contribuenti relativa ai contenuti del progetto.

 Gli immobili e l’eredità, che ne pensa il Fisco

Questa disposizione, tra l’altro, è stato considerato che non fosse in contrasto con lo Statuto dei contribuente. Una sentenza della Corte di Cassazione del 31 gennaio 2013, è andata a ripescare in questi archivi della normativa tributaria, per giudicare un fatto.

 Fisco e INPS uniti contro l’evasione

L’Agenzia delle Entrate aveva chiesto ad una Srl che operava nelle aree svantaggiate indicate dall’ex articolo 8 legge n. 388/2000, il recupero del credito d’imposta relativo agli investimenti compiuti. La domanda era stata quindi impugnata dall’Srl che ha contestato la decadenza del beneficio fiscale indicata dalle Entrate.

► Nelle liti fiscali non vale l’autocertificazione

La decadenza del beneficio era legata alla mancanza di comunicazione sul contenuto e sulla natura dell’investimento fatto. I porporati hanno stabilito che senza la presentazione nei termini del modello di comunicazione Cvs, possono venire meno i requisiti per l’accesso ai benefici.

Le intestazioni di comodo non piacciono al Gip

 Se una macchina, di fatto, appartiene ad un contribuente, ma formalmente è intestata alla società e risulta noleggiata dal contribuente, il fisco vuole vederci chiaro e si può arrivare fino al sequestro. Il chiarimento in proposito è stato fornito dalla Corte di Cassazione con la sentenza numero 2310 del 16 gennaio 2013.

► Le buste paga gonfiate sono fraudolente

Secondo i porporati di piazza Cavour è legittimo il sequestro disposto dal giudice penale di una vettura che formalmente è intestata ad una società e noleggiata dal contribuente indagato per il reato di emissione di fatture per operazioni esistenti. Il giudice penale, infatti, considerando l’intestazione “di comodo” della vettura, può disporne il sequestro se riesce a provare che il bene è riferibile alle persona contro cui è stata adottata una misura cautelare.

► Nelle mani del contribuente la dimostrazione delle spese

La sentenza, come sempre, parte da un fatto reale. Tutto risale alla fine del 2011, quando il legale rappresentante di una Srl ha chiesto al giudice per le indagini preliminari, di revocare il sequestro preventivo della macchina che la società proprietaria del veicolo aveva affittato al soggetto indagata con l’emissione di una regolare “lettera di noleggio”.

Il Gip ha respinto la richiesta perché in base agli elementi raccolti durante l’inchiesta, è stato possibile affermare che la macchina era di proprietà dell’indagato nonostante l’intestazione formale alla società.