Il fiscal cliff pesa sul dollaro

 Il pericolo che l’America possa finire nel baratro della recessione impensierisce gli americani ma soprattutto ha determinato molta incertezza sui mercati che adesso si concentrano sulle oscillazione dell’US Dollar Index e non solo.

Il fiscal cliff è l’incubo dell’America post elezioni. Il pericolo della recessione, adesso che tange anche gli States, si configura come l’inevitabile e nuova sfida per Obama e per il suo entourage. Peccato che a fare le spese di questa situazione non siano solo i cittadini ma anche la moneta americana.

Il dollaro sta perdendo consistenza proprio alla luce dell’incertezza sul futuro finanziario dell’America e il fatto che la situazione sta diventando piuttosto urgente, si può dedurre dall’andamento dell’US Dollar Index.

Gli Stati Uniti, Obama lo sa bene, devono provvedere al più presto a risparmiare qualcosa come 600  miliardi di dollari. La manovra economica, se possiamo chiamarla così, passa dall’aumento delle tasse e da un taglio della spesa pubblica per alcuni servizi.

Due pilastri dell’economia americana che non sono visti nello stesso modo da repubblicani e democratici. L’inquilino della Casa Bianca, però, in questo momento ha bisogno dell’appoggio del Congresso per intero. Repubblicani e Democratici hanno in serbo proposte diverse ma la base di partenza è la stessa: bisogna rinnovare il fisco a stelle e strisce.

Chi investe nei porti italiani

 La Cina basa la gran parte del suo impero commerciale nelle esportazioni e, nell’ultimo periodo, si assistito ad un nuovo flusso imponente verso l’Europa. Per far arrivare la merce cinese in Europa e poi anche in Italia, fino a questo momento, sono stati usati i porti nel Nord Europa.

La posizione di Rotterdam e degli scali del Benelux più in generale, è strategica nella gestioni dei flussi commerciali che arrivano dalla Cina, dall’Inghilterra o dal Sud dell’UE. In previsione dell’intensificazione dei rapporti economici tra Cina e Vecchio Continente, però, gli armatori cinesi stanno studiando un modo per accorciare le rotte.

Per l’evidente congiuntura economica, in questo momento, sono nel mirino gli scali greci, il porto di Atene soprattutto che potrebbe diventare il centro degli scambi tra Cina ed Europa ma anche tra Sud e Nord del Vecchio Continente.

La Grecia è poi vicina a tutta l’area turca e dei Balcani ma i cinesi sembrano siano maggiormente interessati a paesi più solidi economicamente come l’Italia dove operano già imprese straniere. Per esempio la Evergreen Marine Corp taiwanese è nel porto di Taranto, mentre la COSCO che lavora prodotti cinesi è già nel porto di Napoli.

Il problema, a questo punto, è soltanto nella volontà di rendere competitivi gli scali italiani.

 

Italia e Cina più vicine grazie ai porti

 I rapporti commerciali tra l’Italia e la Cina si sono intensificati negli ultimi anni grazie all’accresciuta disponibilità di spesa dell’impero commerciale asiatico. Oggi si sta aprendo un nuovo spazio, un nuovo terreno d’investimento comune per Cina ed Italia: i porti.

La Commissione Europea, in uno degli ultimi rapporti, ha sottolineato come nel nostro paese e nell’UE in generale siano cresciute del 21 per cento circa le importazioni dalla Cina. Il periodo di riferimento è quello compreso tra il 2003 e il 2007.

In questo lasso di tempo l’Unione Europea ha importato merci dai mercati cinesi per un valore che supera i 230 miliardi di euro. C’è anche da considerare che questo genere di flussi sono aiutati dal fatto che il 40 per cento dell’economia cinese è affidata alle esportazioni.

Nella pratica, la Cina ha intenzione di vendere i suoi prodotti in Europa e l’Europa ha tutta l’intenzione di agevolare flussi di tipo commerciale con l’impero del Sol Levante. Sono determinanti per l’arrivo della merce cinese nell’UE e in Italia, dei porti attrezzati.

Finora il punto d’arrivo prediletto dalla Cina sono stati i porti del Nord Europa come Rotterdam o come i Paesi Bassi. All’intensificarsi dei traffici, però, questi approdi potrebbero apparire fin troppo lontani. Fa gola dunque lo sviluppo delle aree portuali italiane. 

Mercato obbligazionario IT a rischio

 Quella tra l’Italia e le Agenzie di rating, ormai, è una battaglia aperta. Nel nostro paese la procura di Trani ha lanciato delle accuse diretta ai manager di Fitch, David Michael Willimoth Riley e Alessandro Settepani, per il fatto che hanno pilotato il rating dei nostri titoli.

Come conseguenza di questa accusa, allora, Fitch ha deciso di limitare tutte le comunicazioni sul rating degli enti italiani. Non ci saranno più informazioni per il mercato e in questo modo i titoli del nostro paese saranno meno “espliciti” per gli investitori.

Nella pratica vuol dire che Fitch, che organizzava periodiche teleconferenze e conferenze in Italia per discutere della salute dei conti dei soggetti italiani che operano nel mercato finanziario, adesso bloccherà tutte queste attività, limitandosi a commenti ufficiali pubblicati.

In cambio, Fitch, chiede all’Italia anche delle “assicurazioni” sul fatto che non ci saranno altre inchieste a suo carico. In effetti l’accusa di aver manipolato il mercato con i commenti sull’Italia, aggravata dal fatto che ci sono stati dei danni al patrimonio dello Stato, influisce sulla credibilità dell’agenzia di rating.

L’unica variabile che resta da considerare è stata evidenziata da Filippo Diodovich, market strategist della filiale italiana di IG che ha spiegato come l’assenza di valutazioni sul nostro paese potrebbe determinare una riduzione del volume di affari tricolore.

Rendimenti e rischi dei corporate bond

 L’acquisto di obbligazioni è decisamente remunerativo se si comprendono i trend finanziari e s’indovina qual è il titolo che renderà maggiormente alla scadenza dell’obbligazione. Peccato che questo genere di prodotti si leghino anche ai rischi d’insolvenza dei paesi.

Basta vedere il rischio che stanno correndo in questo momento coloro che hanno comprato negli ultimi anni delle obbligazioni sulla Grecia. Ecco allora che se proprio lo strumento obbligazionario vi convince, dovete votarvi ai cosiddetti corporate bond.

Si tratta di una serie di obbligazioni aziendali che sono considerati migliori di tanti titoli del debito dei paesi periferici. Insomma, il mercato crede più nelle possibilità delle aziende che nella tenuta degli stati. Tra i prodotti legati al mondo dell’economia dei privati, fanno gola soprattutto le obbligazioni societarie investment grade e corporate bond.

Il rischio dell’investitore è certamente più alto ma anche i rendimenti sono più accattivanti. In più questi prodotti, oggi che il credit crunch è una realtà, sono praticamente uno strumento di “autofinanziamento” delle aziende.

Secondo molti analisti, sul breve periodo i corporate bond sono degli strumenti d’investimento redditizi soprattutto se ci si rivolge agli “industriali”. Basta osservare più da vicino quel che accade ad Eni.

Il merito di credito di Eni è uguale a quello del debito pubblico italiano, quindi BBB+ ma le quotazioni sono state migliori di quelle del debito sovrano tricolore. Un rendimento lordo al 2,2 per cento.

Mercati nervosi, perde terreno piazza Affari

 Il nervosismo dei mercati si è tradotto in performance pessime di Piazza Affari su cui pesano da un lato le preoccupazioni sui vicini di casa e dall’altro i timori Oltreoceano. Ecco cosa ha influito sul leggero tonfo del nostro mercato finanziario.

Nella giornata di contrattazioni di ieri, i mercati sono apparsi molto nervosi e così piazza Affari è stata colonizzata dalla volatilità degli scambi. In fondo ha pesato il fatto che gli investitori non abbiano preso una direzione certa.

Sicuramente Atene influisce sull’andamento degli investimenti, ma è necessario aspettare ancora un po’ visto che nel corso della settimana prossima i vertici greci incontreranno i rappresentati dell’Eurogruppo, chiamati a decidere sulla prossima tranche di aiuti per il paese in difficoltà.

Come se non bastasse il peso del fiscal cliff ostacola la serenità degli scambi di Wall Street che sono peggiorati parecchio nell’ultima seduta. Sul fronte italiano non ci sono stati tanti movimenti riguardo lo spread tra Btp e Bund che è rimasto intorno ai 360 punti base, mentre il Ftse Mib e il Ftse Italia All Share hanno chiuso a -0,52 e -0,53 punti percentuali.

Riguardo i titoli di Piazza Affari c’è stata una battuta d’arresto dei bancari che nei giorni scorsi non erano andati affatto male con un recupero più deciso di A2A ed Enel.

Trimestrali: crolla Mediaset

 Nella storia di Mediaset questo è forse uno dei momenti più drammatici visto che il titolo in borsa ha subito un brusco calo dopo la pubblicazione dei dati trimestrali.

Forse sarà ricordato come il primo trimestre in rosso della storia quello di Mediaset e la borsa lo ricorderà come i manager dell’azienda visto che l’oscillazione del titolo è stata a dir poco “preoccupante”. Il titolo dell’impero televisivo della famiglia Berlusconi ha perso circa 5 punti percentuali.

Vuol dire che le azioni Mediaset sono crollate a 1,204 euro. Un crollo che appunto deriva dalla pubblicazione dei dati trimestrali. Nell’ultimo periodo di rilevazioni, infatti, è stata segnalata una perdita di 88,4 milioni di euro.

In particolare è stata emblematica la crisi della raccolta pubblicitaria che nel periodo che va da luglio a settembre del 2012, è stata del 24 per cento in meno rispetto al precedente periodo d’analisi. Il problema è stato aggravato dalla constatazione che ad ottobre non si è registrata alcuna “inversione di tendenza”.

Il calo dei proventi legati alla raccolta pubblicitaria sarà ancora più deciso nell’ultimo trimestre dell’anno come confermato dalla società. Le stime per il 2012 legate a Mediaset si sono abbassate molto e potrebbe partire a breve un piano aziendale per la riduzione dei costi.

Piazza Affari trainata dai bancari

 Chi investe in opzioni binarie ha sicuramente drizzato le orecchie dopo la pubblicazione dei dati trimestrali di Unicredit ed Intesa Sanpaolo, perché le buone notizie contenute nei documenti diffusi dai bancari, hanno immediatamente trainato le borse verso l’alto.

La borsa di Milano e quella di Madrid sono state le migliori nella giornata di ieri e i guadagni di Piazza Affari sono stati spinti verso l’alto dalle informazioni diffuse da Intesa Sanpaolo e Unicredit, entrambe con utili netti superiori alle attese. Per un effetto a catena che spesso coinvolge tutte le borse, ha subito una virata verso terreni positivi anche Wall Street, nonostante gran parte della borsa americana sia ancora immobilizzata dall’incertezza sul fiscal cliff.

Da notare anche i titoli che hanno un po’ zavorrato i listini del Vecchio Continente, tra cui troviamo in prima posizione la Vodafone che, in seguito alla nota sui conti dell’azienda con un calo dei ricavi e dei servizi e una serie di svalutazioni in Spagna e in Italia, ha perso circa 4,6 punti percentuali.

Per quanto riguarda lo spread, oggetto di numerose “scommesse” finanziarie, si nota una discesa fino a quota 360 legta probabilmente alla diffusione dei dati relativi all’ultima asta, con un collocamento buono dei Bot e un conseguente calo dei rendimenti. Lo spread spagnolo è a quota 463 punti con un tasso del 5,95%.

Intesa e Unicredit: trimestrali inattesi

 In questo periodo non soltanto le imprese che si occupano di tecnologia devono pubblicare i dati trimestrali sulla loro economia, ma tutte la aziende che sono quotate in borsa. Oggi è stata la volta dei bancari e, inaspettatamente, si sono dimostrati al di sopra delle aspettatitive i titoli di Intesa Sanpaolo e Unicredit.

Iniziamo da Unicredit che ha messo al sicuro un utile netto di 335 milioni di euro per il terzo trimestre del 2012, di cui 39,5 milioni sono arrivati dal riacquisto di ABS. Rispetto al secondo trimestre dell’anno c’è stato un miglioramento, visto che per il periodo precedente si parlava soltanto di 169 milioni di euro.

Fino a settembre 2012, dunque, Unciredit ha chiuso con un utile netto pari a 1,4 miliardi di euro che rappresentano una crescita netta rispetto agli 847 milioni dei primi nove mesi del 2011. Crescita anche per i ricavi che salgono del 2 per cento.

Per quanto riguarda Intesa Sanpaolo, invee, l’utile netto con cui è stato archiviato il terzo trimestre dell’anno è pari a 414 milioni di euro e stavolta non c’è niente da rallegrarsi visto che il dato è in calo dell’11,9% rispetto al secondo trimestre e, rispetto allo stesso periodo del 2011, la differenza è ancora più marcata: -113 milioni di euro. Gli analisti si dicono comunque soddisfatti perché l’utile netto supera le attese.

Stati Uniti verso l’autonomia petrolifera

 Entro il 2017 gli Stati Uniti si emanciperanno del tutto dal petrolio straniero e anzi, diventeranno i più grandi produttori di petrolio al mondo. E’ questa la notizia più interessante che arriva dall’ultimo rapporto annuale sulle fonti e i consumi energetici nel mondo, stilato dall’Agenzia Internazionale dell’Energia, l’AIE.

Attualmente i maggiori produttori di petrolio sono la Russia e l’Arabia Saudita ma gli USA possono superarli con facilità e c’è da fidarsi delle previsioni dell’AIE che inizia a prefigurare un cambio nella gestione dei flussi energetici ed economici a livello mondiale.

L’AIE è un’organizzazione internazionale intergovernativa fondata dall’OCSE dopo il Settanta, anni che sono passati alla storia per la crisi energetica mondiale. Mai però, aveva dato indicazioni sulla produzione così precise.

Come si riorganizzerebbero quindi i flussi petroliferi nel 2017? In primo luogo gli Stati Uniti raggiungerebbero l’autonomia energetica, emancipandosi dalle fonti esterne, mentre oggi importano il 20 per cento del petrolio per il consumo interno. A quel punto lascerebbero nel dimenticatoio tutti i progetti di trasporto del petrolio, costruzione di oleodotti e quant’altro.

Su questa fetta di mercato potrebbero quindi entrare i paesi orientali, la Cina in primo luogo che, per il ritmo di crescita che ha, probabilmente, necessiterà di sempre maggiore energia.

L’AIE dice che gli USA raggiungeranno l’autonomia energetica grazie all’aumento dei sistemi d’estrazione ma anche grazie alla nuova politica energetica di riduzione dei consumi. Ecco allora che le previsioni dell’AIE non convincono gli analisti.