Il 2013 sarà un anno nero per gli statali

 Saranno i dipendenti pubblici a sentire la crisi economica e le manovre per il salvataggio dell’Italia. Il 2013 sarà infatti caratterizzato dal taglio di circa seimila dipendenti – 3.100 nei ministeri, 58 dirigenti di prima e seconda fascia e 140 impiegati negli enti di ricerca – e di quello delle buste paga, per le quali si prevede una perdita di circa 6000 mila euro in quattro anni.

Alla somma di questi, poi, vanno aggiunti altri 900 ‘tagliati’ che sono il risultato della legge 148 del 2011 che prevede la diminuzione dell’organico dell’Inail del 10%. Di questi 900 per ora sono effettivi solo 259, per i quali è stata predisposta la mobilità.

Ma le stime del totale effettivo delle persone che si ritroveranno senza lavoro o in cassa integrazione sono contrastanti. Per l’Inps, coloro che con l’anno nuovo si troveranno senza lavoro sono soltanto 2000, per i quali sarebbe già stata predisposta la sistemazione, tra pensionamenti, pre- pensionamenti e trasferimenti per circa l’80% del totale e solo il 20% saranno messi in mobilità.

Per quanto riguarda la perdita di potere d’acquisto delle buste paga delle PA, l’Aran (Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni ha stimato che la perdita è stata dello 0,2% rispetto al 2010, che si tradurranno in circa 240 lordi euro nel potere di acquisto entro la fine del 2014.

 

Niente fondi UE per il lavoro

 Da Bruxelles non arriveranno fondi destinati ai lavoratori. A dirlo è una nota della Commissione Bilancio del Parlamento Europeo: non è stato possibile approvarli perché il bilancio 2012 in cui erano previsti è ancora bloccato. In sostanza non ci sono le risorse per il 2012 e, se non verranno trovate, è impossibile sbloccare i fondi per il prossimo anno.

A farne le spese circa 5000 lavoratori (tra Italia, Spagna, Finlandia, Danimarca, Svezia, Romania e Austria) a cui dovevano essere destinati 25 milioni di euro di aiuti provenienti dal Fondo Ue di adeguamento alla globalizzazione (FEG). Il FEG è stato creato con la prospettiva di dare sostegno e garanzie ai lavoratori che avrebbero perso il lavoro a causa degli adeguamenti strutturali derivanti dal commercio internazionale. La destinazione principali degli aiuti è in nuovi impieghi, formazione e sovvenzioni.

In particolare, al nostro paese spettavano 2.658.495 euro da destinare a 502 licenziati di dieci imprese produttrici di veicoli a due ruote nella regione Emilia-Romagna, produzione che è stata fortemente colpita dalla crisi e dalla crescita delle esportazioni provenienti dalle produzioni asiatiche.

BCE su disoccupazione: dati stabili ma c’è ancora da fare

 Il bollettino di novembre della Banca Centrale Europea non parla solo della contrazione del Pil nell’Eurozona, ma anche dei dati riguardanti la disoccupazione e le misure che devono ancora essere prese al fine di rimettere in circolo forza lavoro e capitali tra i paesi dell’Unione.

Progressi evidenti sono stati compiuti nella correzione del costo del lavoro per unità di prodotto e degli squilibri delle partite correnti. Tuttavia occorrono ulteriori misure per accrescere la flessibilità e la mobilità nel mercato del lavoro in tutta l’area. Tali misure strutturali servirebbero a integrare e favorire il riequilibrio delle finanze pubbliche e la sostenibilità del debito.

Nella seconda metà dell’anno i dati riguardanti il tasso di disoccupazione hanno continuato a salire, per fermarsi a settembre sull’11,6%, il che vuol dire che c’è stato un incremento di 1,3 punti percentuali rispetto all’anno precedente. Le perdite maggiori di posti di lavoro si sono registrate nell’industria e nei servizi.

Tra il primo e il secondo trimestre dell’anno, il numero di occupati è rimasto stabile, dopo tre trimestri di crescita negativa. Le ore lavorate sono invece diminuite ulteriormente dello 0,3% rispetto al trimestre precedente. A livello settoriale, si è registrato un calo congiunturale degli occupati nell’industria, specie nel settore delle costruzioni, mentre nei servizi l’occupazione è stata più stabile.

 

 

 


La Green Economy traina il mercato del lavoro

 Qualche giorno fa è stato presentato il rapporto dell’Istat e di Coldiretti  Prospettive per l’economia italiana nel 2012-2013 in cui si presentavano le cifre riguardanti la Green Economy in Italia e il suo impatto nel comparto economico generale. Nel rapporto si sono evidenziate le ottime performance a livello occupazionale di questo settore, il cui trend occupazionale segna un +4,2% di addetti nel secondo trimestre del 2012.

A ribadire l’importanza della Green Economy per il mercato del lavoro italiano un altro rapporto stilato da Unioncamere e Fondazione Symbola. Green Italy 2012 mette in evidenza come

il 38,2% delle assunzioni complessive programmate (stagionali inclusi) da tutte le imprese italiane dell’industria e dei servizi per l’anno in corso si deve alle aziende che investono in tecnologie green.

La regione che maggiormente punta sulle tecnologie green è la Lombardia con 69.000 eco-imprese, seguita dal Veneto con quasi 34.000 e, al terzo posto, il Lazio con 33.000 imprese. Le tipologie di aziende che maggiormente credono e investono nella Green Economy sono quelle farmaceutiche (41%), le manifatturiere (27%) e il terziario (al 21,7%).

Gli esperti attribuiscono alla Green Economy un valore fortemente anticrisi:

Sul totale di 631.000 assunzioni complessive programmate, 241.000 sono ascrivibili ad imprese che credono nella green economy; delle 358.000 imprese che hanno investito negli ultimi tre anni in tecnologie green, ben il 20% prevede nel 2012 di assumere.

Il land grabbing non dà i risultati sperati

 Se il Land Grabbing (locuzione che in italiano si può tradurre come accaparramento delle terre) è un fenomeno storico e economica presente lungo tutto il corso della storia dell’uomo, così come si sta trasformando ora rischia di essere più deleterio che benefico, sia per gli investitori sia per i paesi  coinvolti.

Anche la Fao è da sempre stata favorevole all‘investimento straniero nell’agricoltura nei paesi in via di sviluppo, un modo di operare che, se da un lato fa gioco all’economia dei paesi sviluppati, che hanno maggiori possibilità di coprire le richieste alimentari della popolazione, dall’altro si configurava come un modo per aiutare anche le economie dei paesi in via di sviluppo , sia in termini di produzione che di infrastrutture.

Ma, da quanto emerge dal rapporto Trends and Impacts of Foreign Investment in Developing Country Agriculture:

Il numero dei posti di lavoro creati è stato decisamente inferiore a quanto non fosse stato inizialmente annunciato ed in alcuni casi perfino i posti di lavoro per mano d’opera poco qualificata sono stati presi da personale non locale.

Mentre diversi studi documentano con chiarezza gli effetti negativi delle acquisizioni di terra su larga scala nei Paesi in via di sviluppo, non ci sono molti riscontri sui loro possibili benefici per il Paese ospite, specialmente nel breve periodo e a livello locale.

Le alternative ci sono – accordi di agricoltura contrattuale, sistemi di piantagioni satellite con condivisione del capitale e joint ventures tra le compagnie che investono e le cooperative contadine locali – ma, per raggiungere questi obiettivi è necessario un intervento più profondo dei singoli governi e delle istituzioni che dovrebbero concentrarsi di più sui benefici alla popolazione e non a quelli delle  grandi multinazionali che investono  in questi territori.

Nuove regole per apprendistato e contratti a termine

 La riforma del mercato del mercato del lavoro procede a tutta forza. Il ministro Fornero è più che mai convinta che l’apprendistato possa essere la cura per molti mali che affliggono questa parte dell’economia e, dopo la circolare dell’Inps che conferma gli sgravi fiscali per quelle aziende che scelgono di assumere forza lavoro in qualità di apprendisti, arrivano quelle del governo con le quali si procede alla regolamentazione di questo tipo di contratti.

In questi giorni si stanno susseguendo le notifiche istituzionali sia sull’apprendistato che sulle tipologie di contratto a termine che, partiti come strumento per rendere il lavoro più flessibile, si sono trasformati nell’emblema del precariato.

Precariato che è uno dei principali motivi che hanno fatto nascere la necessità di una riforma del lavoro, in quanto usati in maniera non sempre trasparente dalle aziende.

Nell’impostazione della riforma del mercato del lavoro voluta dal Ministro Fornero, sono previste tre tipologie principali di contratto di apprendistato: apprendistato professionalizzante (attraverso il quale si raggiunge una particolare qualifica professionale); l’apprendistato qualificante (una sorta di programma per ottenere un diploma) e l’apprendistato di alta formazione (affiancato a percorsi scolastici o universitari).

Il risultato di questa opera di diversificazione dei contratti di apprendistato e degli sgravi previsti dovrebbe essere un abbassamento del numero di disoccupati e, quindi, migliori prospettive per i giovani italiani.

Giovani e lavoro: pronti a qualsiasi impiego pur di lavorare

 I giovani fanno molto meno caso alle parole che vengono spese su di loro rispetto a quanto possano fare i giornalisti  o gli esperti del settore. In particolar modo ci riferiamo alla parola detta dal Ministro Fornero: choosy, termine inglese che letteralmente vuol dire schizzinoso, scelto per indicare quella categoria di ragazzi che non si accontentano di trovare un lavoro, ma che cercano, fin da subito, il lavoro della vita.

Ma un sondaggio rivela che i giovani italiani, nella maggior parte dei casi, sono tutt’altro che choosy, anzi sono disposti a tutti pur di trovare un lavoro. A rivelarlo è un sondaggio condotto da  Gfk Eurisko per conto dell’Osservatorio Giovani Editori.

Dal sondaggio è emerso che il 57% dei ragazzi italiani delle scuole medie superiori vuole trovare un lavoro, indipendentemente dalla sua tipologia, pur di entrare a far parte di questo mondo. E’ solo una piccola percentuale di ragazzi (il 12%) quella che aderisce di più alla definizione del Ministro Fornero e che vuole un impiego che sia il più possibile in linea con il percorso formativo affrontato.

La distinzione tra chi vuole un lavoro e chi, invece, vuole il lavoro passa proprio dal percorso formativo: il 63% dei ragazzi degli istituti tecnici e professionali accetterebbe tutto, contro il 54% degli studenti dei licei, leggermente più «choosy».

Aumenta l’occupazione nell’agricoltura

 In occasione del convegno su «Lavoro, occupazione, produttività» organizzato da Confagricoltura sono stati presentati i dati occupazionali del comparto riferiti al secondo trimestre del 2012, che mostrano come il settore agricolo, nonostante le difficoltà dell’economia italiana, sia una realtà in espansione in cui l’occupazione è in continua crescita.

Nel secondo trimestre del 2012 i dati Istat riportano un aumento del numero degli addetti all’agricoltura del 6,2%, che dimostra come il settore faccia da traino a tutti gli altri comparti economici che hanno fatto registrare, per lo stesso periodo, un calo tendenziale dell’occupazione dello 0,2%.

Circa un milione di lavoratori sono attualmente occupati nel comparto agricolo e si tratta perlopiù di lavoratori dipendenti, per un totale di cento milioni di giornate lavorative dichiarate e 9 miliardi di stipendi erogati, suddivisi in 935mila operai a tempo determinato, 117mila operai a tempo indeterminato e 35.500 impiegati.

Nel totale degli addetti all’agricoltura spiccano i giovani (il 28% sono persone di età compresa tra i 40 e i 49 anni, il 23% fino a 29 anni e il 6% che supera i 60 anni), che si concentrano, però, in un numero troppo esiguo di aziende: sono infatti solo 200mila le aziende del settore che sono riuscite ad impiegare nuova forza lavoro. Nello specifico un quarto della forza lavoro agricola si concentra nelle 500 aziende più grandi.

 

La Fornero interviene sulla questione agricola

 Tra le tante priorità del Governo c’è anche quella del risanamento del settore agricolo italiano, un settore in cui la crisi e la mancanza di occupazione pesano in modo particolare. A cercare di trovare una soluzione alle tante problematiche dell’agricoltura il Ministro Elsa Fornero, che è  intervenuta in questi giorni al convegno su «Lavoro, occupazione, produttività» di Confagricoltura.

In primo luogo il Ministro fa un passo indietro sull’abbattimento della contribuzione agricola nel Mezzogiorno, una delle proposte dell’ultima manovra, che non si è rivelato essere una soluzione adatta, anzi, potrebbe trasformarsi in una ulteriore fonte di sperequazioni.

Anche la proposta della stessa Confagricoltura – l’abbassamento delle aliquote per tutti – non è una strada percorribile, in quanto, data l’attuale situazione economica, ad aliquote più basse corrisponderebbe una riduzione delle agevolazioni. Secondo il Ministro del Lavoro la soluzione dovrebbe passare attraverso una riforma strutturale più profonda, che vada a colpire, in primo luogo, gli ammortizzatori sociali, i quali, nel settore dell’economia, non sempre sono utilizzati nel modo più corretto.

Ma non si tratta di una estensione di questi ammortizzatori, anche se era una delle prime possibilità prese in considerazione dal Governo tecnico, perché come spiega la Fornero:

avevamo riflettuto sulla possibilità di estendere la riforma degli ammortizzatori sociali al settore agricolo ma abbiamo deciso di no, non perché siamo soddisfatti della situazione attuale ma perché avrebbe allungato i tempi della riforma.

 

Top manager inglesi: stipendi più alti del 27%

 A determinare lo strabiliante aumento non sono stati i bonus o aumenti di stipendio, ma una nuova voce che compare da qualche tempo nelle voci dei contratti dei top manager delle aziende quotate alla London Stock Exchange: gli incentivi a lungo termine derivanti dall’andamento dei titoli societari in borsa.

L’aumento medio stimato dalla Income Data Services si aggira intorno ai 4 milioni di sterline (circa 5 milioni di euro) per ogni presidente, amministratore delegato e manager.  Come è stato possibile visto il freno messo alle principali voci di guadagno dei top manager?

La spiegazione è piuttosto semplice: questi incentivi a lungo termine non generano profitti per i top manager solo nel caso in cui i titoli delle aziende che a loro fanno capo vanno bene in borsa, ma anche se i titoli, pur non andando bene, vanno comunque meglio di quelli delle altre aziende dello stesso settore.

Un altro elemento che ha concorso nel generare questo tipo di aumento è stato il fatto che l’introduzione degli incentivi è avvenuta appena dopo i crack finanziari del 2008, periodo che ha portato una notevole risalita dei titoli quotati sulla borsa londinese.

Steve Tatton, autore del rapporto precisa che:

Se gli azionisti saranno compiaciuti nel vedere un rallentamento degli elementi più classici dei compensi, queste cifre rivelano che i compensi dei manager possono lo stesso crescere significativamente come risultato di un complesso cocktail di incentivi a lungo termine.