Investire sul futuro: come ottimizzare il passaggio generazionale delle imprese familiari

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La questione interessa l’intero sistema-Paese, perché la spina dorsale della nostra economia è costituita proprio dalle imprese familiari. A rappresentare l’85% del totale delle aziende italiane e ad assicurare la tenuta socio-economica complessiva, laddove il 65% di esse fattura oltre i 20 milioni di euro. Purtroppo, senza pensare al tempo che passa, laddove solo una su dieci ha un piano di transizione già pronto e solo due su dieci sono consapevoli – del problema, dell’urgenza di predisporne uno e dell’importanza di farlo bene.

Il patrimonio emotivo e gli errori da non fare

A darci un quadro più completo della situazione, i dati dell’Osservatorio AUB 2023, la recente analisi Deloitte su 100 imprese familiari italiane e l’esperienza dello Studio legale Borrelli – premiato da Forbes come migliore professional 2021 e 2022 e partner de IlSole24Ore. Tutti concordi sulla rilevanza di due aspetti, presenti nelle imprese che hanno registrato i migliori risultati economici, finanziari e occupazionali: il modello di governance e la gestione del ricambio generazionale.

Aspetti che, secondo l’avvocato Paolo Borrelli, dipendono da un fattore principale: il patrimonio emotivo. L’insieme cioè degli elementi valoriali e affettivi che condizionano le decisioni d’impresa. A generare importanti errori sistemici di visione e operato, come:

  • confondere l’appartenenza familiare con la competenza;
  • sovrapporre pertanto i tavoli familiari e di gestione aziendale, mischiando i ruoli di proprietà, governo e direzione;
  • comporre il Consiglio di Amministrazione, ove presente, soltanto con i membri della famiglia proprietaria;
  • scegliere i collaboratori esterni per ragioni diverse dalla capacità e dalle performance a beneficio dell’azienda;
  • non sviluppare la dialettica intergenerazionale, a incoraggiare vis imprenditoriale e creatività dei figli e dei nipoti;
  • trattare il passaggio come un obbligo (per di più, in caso di decesso del leader familiar-aziendale) e non come un processo, da avviare per tempo e affrontare come un’opportunità;
  • pensare di fare da soli, senza cioè un professionista esterno e competente che acquisisca una visione di dettaglio e d’insieme per il miglior successo della transizione.

Investire in giovani, donne e competenze

Lo dicono i numeri: tra le imprese familiari con un fatturato di oltre 20 milioni, quelle con i migliori risultati hanno un Consiglio di Amministrazione formato da più capacità oggettive e meno famiglia proprietaria. Compresi giovani magari non interessati a prendere il testimone ma partecipi alla continuità dell’impresa nel ruolo di azionisti di minoranza. Infatti, come ci conferma l’Avv. Borrelli, le generazioni seconde e terze risultano ottenere prestazioni e risultati migliori della prima, in ragione proprio del loro maggiore “distacco” e di sistemi di governance ancorati a logiche economiche e non emotive. Puntare dunque su giovani, donne e figure esterne competenti non è un costo bensì un investimento.

Come lo stesso passaggio generazionale, complesso e che contiene diversi aspetti da considerare – societari e gestionali ma anche psicologici e, beninteso, familiari. Da affidare per tempo a una sola figura professionale competente, che possa in questo modo avere una visione unitaria e accompagnare nel migliore dei modi generazioni uscenti ed entranti in questa transizione. Evitando così di lasciarsi dietro “fronti aperti” e problemi irrisolti, a rischiare di compromettere il passaggio e la stessa continuità aziendale. Infatti, solo un terzo delle nostre imprese familiari ce la fa alla seconda generazione e solo un 10-15% di esse “sopravvive” con la terza. 

Come dicevamo, il nostro tessuto imprenditoriale è rappresentato per l’85% da queste imprese, tant’è che l’Italia si colloca al settimo posto tra i Paesi che ospitano le prime 500 aziende familiari al mondo. E questo rende il passaggio generazionale strategico per l’intera economia. Come diceva l’economista Benjamin Graham, il primo ad aver sviluppato la teoria del Value Investing, “Quello che si paga è il prezzo: quello che si ottiene è il valore”.

 

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