Mario Draghi: mandato finito. La BCE passa a Christine Lagarde

Mario Draghi ha concluso il suo mandato come presidente della Bce, e ora la banca centrale passa nelle mani di Christine Lagarde, che era al Fmi. Un presidente discusso, che alla fine però è stato applaudito da tutti i principali Governi europei.

Mario Draghi

Mario Draghi è stato il presidente del periodo più difficile, e ha portato avanti una politica monetaria osteggiata dal colosso tedesco e dalla Federal Reserve, ma che alla fine ha portato a risultati sufficienti se si considera la forte crisi economica, e la strada che poi sia la Germania che l’America hanno preso.

In particolare la Federal Reserve ha finito per seguire, quest’anno, la stessa politica monetaria. Draghi, nel suo discorso di commiato, si è detto fiducioso perché la Bce “è in buone mani”:

“Oggi ci sono 11 milioni di persone occupate in più in Europa, la popolarità dell’euro è ai suoi massimi livelli e i politici dicono che la moneta unica è irreversibile. È davanti agli occhi di tutti che ora è il momento di più Europa, non meno. Noi europei dobbiamo prendere il nostro destino nelle nostre mani”.

Le reazioni

Alla fine Draghi ha avuto il consenso unanime dei principali membri dell’Europa, e non solo del presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Christine Lagarde ha ringraziato il presidente per la sua saggezza, quella che lo ha portato a difendere fino all’ultimo una politica monetaria di bassi tassi e iniezioni di liquidità anche di fronte alle forti critiche da parte di Berlino e Washington.

Anche la Merkel si è lasciata sfuggire un “Leadership cruciale per la stabilità dell’Eurozona”, lei, che da leader tedesco, ha sempre individuato nella stabilità la ricetta per il suo paese:

“Sotto la tua guida la Bce ha dato contributo importante e cruciale alla stabilità dell’eurozona. Siete stati in grado di farlo in fretta perché siete una istituzione indipendente. Dobbiamo essere in grado di difendere questa indipendenza”.

Per Macron addirittura Draghi è il “degno erede dei padri fondatori dell’Europa”, e rilancia la politica espansiva del presidente uscente i governi ad appoggiare la Bce nel continuare su questa strada per aiutare l’economia europea:

“Quello che celebriamo oggi è l’azione di un uomo che ha portato molto in alto il sogno europeo. Spetta ora a noi, cari leader portare avanti questo compito”.

USA: la fine dell’era del petrolio. O no?

L’America non ha più bisogno di petrolio, e così abbandona i partner mediorientali. Tutto merito dello Shale, il petrolio delle rocce di argilla che ha reso gli Stati Uniti autosufficienti. In pochi anni c’è stata un’autentica rivoluzione nel settore, e gli Usa si possono permettere di abbandonare l’Arabia Saudita, di lasciar chiudere lo Stretto di Hormuz e disinteressarsi del Medio Oriente.

In più gli Stati Uniti hanno iniziato a esportare il loro petrolio a prezzi super bassi, mettendo in crisi i grandi produttori storici.

Un arma a doppio taglio, visto che i prezzi stracciati si sono tradotti in zero profitti per le aziende produttrici Usa, che investivano più di quel che fatturavano, sicuri del boom economico in essere. Gli investimenti attiravano finanziamenti, che però ora si sono fermati.

Tra prestiti e investimenti diretti si è passata la cifra dei 56 miliardi di dollari, ma il tutto ha portato al crollo del greggio. Risultato: investimenti a meno di 20 miliardi e 27 aziende del settore fallite.

Il futuro

Ora sono in molti a sperare in fusioni e consolidamenti, ma i critici segnalano gli aspetti più fragili della nuova tecnologia: il sovrasfruttamento dei pozzi e il loro precoce esaurimento, che porta a ricerche sempre più serrate per i nuovi pozzi. E quindi a nuovi investimenti.

Questo potrebbe significare che i trionfali tweet di Trump dovranno essere annoverati, tra qualche tempo, tra le gaffes più grandi del presidente.

E chissà che i risparmi per pattugliare e tenere sotto controllo il Medio Oriente, che l’America sperava di ottenere con la Shale, siano solo un miraggio.

Per il momento dunque, il sogno dell’America First di Donald Trump, almeno per il discorso del petrolio, è ancora in bilico.

Forse è per questo che Trump ha prima annunciato il ritiro dalla Siria, per poi smentire se stesso qualche giorno dopo e andare a difendere le istallazioni petrolifere. Tensione ancora alta dunque con l’Iran, anche perché le sanzioni con il paese islamico sono servite solo a far divenire la Cina il maggior importatore di petrolio di Teheran.

Gli Usa manterranno le loro basi in Arabia e Baharain, e pensare al vuoto che lascerebbero gli americani, in caso di un disimpegno nella regione, è ancora prematuro. Per il momento.

Come funziona una no profit e come gestirla al meglio

Un’associazione no profit è un’organizzazione che, non avendo scopi di lucro, reinveste gli utili interamente per gli scopi organizzativi. In Italia, la maggioranza delle organizzazioni no profit è attiva nel settore dello sport, cultura e ricreazione. Ad esempio, le società sportive no profit, giovani e fortemente radicate nel territorio, puntano, nel loro ambito di interesse, alla promozione sportiva, ricreativa e di socializzazione, e sulla realizzazione di attività sportive e sulla gestione di impianti sportivi.

Rientrano pertanto propriamente nella categoria “no-profit” quelle organizzazioni cui sia applicabile la recente disciplina riservata alle organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLUS). Oltre alla ONLUS, tra le associazioni no profit rientrano anche le organizzazioni di volontariato, cioè ogni organismo liberamente costituito il quale svolge attività da intendersi prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, tramite l’organizzazione stessa di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà.

no profit

Ennesima tensione per la guerra commerciale. Borse europee restano positive

Le Borse europee restano positive nonostante si riaccendano delle tensioni tra la Cina e gli Stati Uniti. Ormai ci siamo abituati alle sfuriate dell’incontrollabile presidente Trump, che alla vigilia di nuovi incontri con la superpotenza asiatica, ha deciso di includere 28 multinazionali cinesi nella lista nera delle indesiderate.

Domani riprendono i colloqui a Washington tra i due paesi, e forse si tratta solo di una forzatura in una guerra che sembra non avere mai fine.

E forse per questo che le Borse europee non si sono fatte influenzare dalla situazione, con Milano su dell’1%, Francoforte in attivo dello 0,78%, Londra più moderata a +0,06% e Parigi a +0,56%.

La situazione

li Stati Uniti, alla vigilia dei colloqui, hanno aggiunto alla lista nera che non può fare affari con aziende statunitensi altre 28 compagnie di Pechino. Stavolta l’accusa è complicità con la repressione verso i musulmani che sono nella regione cinese dello Xinjiang.

Naturalmente Pechino non è d’accordo con la presa di posizione americana, ritenuta diffamatoria e interessata, alle questioni commerciali, più che razziali. I cinesi accusano Washington di calunnia, secondo quanto detto dal portavoce degli Esteri Geng Shuang, che ha parlato apertamente di “intenzioni sinistre” da parte dell’amministrazione Trump.

Le Borse asiatiche ne hanno risentito, con Tokyo che ha perso lo 0,61% sul Nikkei. Shanghai invece, dopo aver navigato a lungo in negativo, è riuscita a chiudere con un +0,39%. Stesso andamento per Shenzhen, che chiude a +0,34%, mentre cade Hong Kong a -0,84%.
Sul fronte valutario non ci sono scossoni, con l’euro a 1,0958 sul dollaro, così come lo spread italiano, che resta sui 143 punti al rendimento decennale dello 0,84%.
Sul fronte petrolifero, il prezzo del Wti futures a novembre sale a 53,18 dollari al barile, in rialzo dell’1,16%, e il Brent sale a 58,88 dollari al barile, in rialzo dell’1,13%.

Per l’oro nuovo forte rialzo, che riporta il metallo giallo sopra a quota 1500 dollari l’oncia. Oggi la quotazione è di 1.506 dollari l’oncia con un aumento dello 0,9%.

Domani sarà una giornata in cui le Borse potrebbero essere volatili, specie quelle americane, a seconda delle dichiarazioni che Cina e Stati Uniti faranno alla fine del primo giorno di colloqui.

L’America non ostacolerà le quotate cinesi. Borse in recupero

Nel pomeriggio le Borse europee sono in recupero, dopo l’annuncio del Tesoro americano, che smentisce le voci su un presunto piano per non far quotare le aziende cinesi. Intanto si guarda al discorso impeachment per il presidente Trump.

Il fine settimana era stato tormentato per i mercati finanziari, quando il quotidiano Bloomberg aveva parlato di un piano per impedire l’ingresso ad alcune società cinesi a Wall Street. Si temeva un altro capitolo della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, ma il portavoce del Tesoro è stato chiaro:

“Non stiamo pensando di impedire alle società cinesi di quotarsi sulle Borse statunitensi in questo momento”.

I mercati

I mercati sono apparsi subito rinfrancati, soprattutto quella Wall Street molto interessata dall’iscrizione delle quotate cinesi. New York è passata da dei futures negativi, ad un +0,2% in apertura per il Dow Jones, mentre il Nasdaq segna un +0,3%.

Reagiscono bene anche le Borse europee, con Milano che segna il +0,11%, con il comparto bancario che spicca sugli altri. Bene anche Parigi, con il +0,19%, mentre più contenuta è Francoforte, che segna un piccolo +0,07%. Tra le principali, male Londra, che scende dello 0,15%.

In Asia, brutto momento per Tokyo, che ha registrato una chiusura del Nikei a -0,53%, e per Shanghai, dove la perdita è stata dello 0,92%. Qui però, le buone notizie dall’America non erano ancora arrivate.

L’Europa finanziaria guarderà anche all’Italia e al consiglio dei Ministri in programma per questa sera. Palazzo Chigi voterà l’Aggiornamento del Def, che indirizzerà la prossima Legge di Bilancio. Intanto il nuovo Governo continua a dare fiducia ai mercati, abbassando lo spread fino a 140 punti base. I decennali italiani ormai rendono “solo” lo 0,84%.
Anche i dati macroeconomici italiani tornano a segnare spunti positivi, con la disoccupazione ai minimi dal 2011. La percentuale dei disoccupati si attesta al 9,5%, mentre scende la disoccupazione anche in Germania, dove si registra il 4,9%. Anche in questo caso si tratta di un record positivo, visto che la disoccupazione tedesca non era mai stata così bassa dopo la riunificazione del 1990.

L’inflazione però rimane troppo bassa, per gli auspici della Bce, e in Italia segna solo lo 0,4%, mentre l’Europa punta al 2%.

Germania: il Pil crolla e ora è allarme europeo

Se ne parlava da tempo: la Germania si è fermata. Si è fermata la locomotiva europea, e l’Europa con lei. Ora arriva la conferma dai dati ufficiali, che dicono di un rallentamento nel secondo trimestre pari allo 0,1%. Malissimo le esportazioni, da sempre il traino del paese, con un -1,3%, dice l’istituto statistico Destatis, nel suo rapporto pubblicato questa mattina.
Tutto nelle previsioni comunque, con le economie occidentali in netta difficoltà. L’America da segnali di recessione, e intanto fa la guerra commerciale con la Cina. La Gran Bretagna non ha capito ancora cosa deve fare con la Brexit. L’Europa guarda alle crisi politiche italiane. Di carne al fuoco ce n’è fin troppa.

L’economia tedesca

Il Pil tedesco nel secondo trimestre ha stentato parecchio, portando il dato del periodo a +0,4%, mentre il primo trimestre si era chiuso con il +0,9%. Ma sono le esportazioni a spaventare i tedeschi, con la diminuzione più significativa da sei anni a questa parte.

Il mercato interno del paese segna un piccolo +0,1%, troppo poco per spingere il paese, nonostante il +0,5% di spesa pubblica.

La Germania quindi spende ma non crea. L’Italia probabilmente soffrirà di più la situazione tedesca, per motivi strutturali, che vedono molte aziende teutoniche esportare in nostri prodotti in modo più efficiente delle aziende italiane.

Noi produciamo, loro ci esportano i prodotti, e la sinergia è proficua per tutti. Ora però l’export tedesco si è fermato, e potrebbe mandare in crisi proprio gli italiani, a meno che non si cerchino canali alternativi.

Anche dal terzo trimestre arrivano brutti segnali, e la Germania, se i dati fossero confermati, sarebbe in recessione tecnica. L’ indice Ifo sulla fiducia delle imprese tedesche continua a scendere, anche questo mese, il quindi in diminuzione, e questo è un altro brutto segnale. L’indice è ai minimi storici dalla fine del 2012, e i dati non propongono miglioramenti. Anche gli osservatori esteri, come la Fed, vedono nubi buie sulla Germania (e sulla Cina), e dalla Bce e dalla Bundesbank confermano che nel terzo trimestre ci sarà l’ufficialità della “recessione tecnica”.

Berlino può applicare ancora alcune misure, in particolare sulle agevolazioni fiscali, e questo rende i dati meno negativi, certi che la Germania cercherà di stimolare la sua economia.

Banca d’Inghilterra: è ora di una valuta digitale globale delle banche centrali

Il Bitcoin e le valute digitali hanno fatto scuola, cambiando molto la struttura monetaria così come la conoscevamo nel senso classico. Non perché la moneta digitale non esistesse prima (la usano le banche in forma elettronica da decenni), ma perché ha aperto l’opinione pubblica ad una nuova percezione.

Ora arriva anche la Banca d’Inghilterra a chiedere una valuta digitale globale. Una delle più importante banche centrali del mondo indica la strada per contrastare il dollaro e il yuan cinese. L’egemonia del biglietto verde non va più bene a Londra, che teme anche l’ascesa della moneta cinese.

Allora arriva l’indirizzo, sulla falsa riga della Lybra di Facebook, e il Governatore della banca centrale inglese, Mark Carney, lancia l’idea che anche le banche centrali dovrebbero darsi alla valuta digitale.

La nuova valuta

Secondo il Governatore, il dollaro non può più mantenere il suo ruolo di riserva valutaria e moneta di scambio globale, e serve una condivisione nella gestione di una moneta realmente globale, anche dal punto di vista di creazione.

Carney chiama ad un nuovo sistema monetario e finanziario internazionale, che si svincoli dal dollaro per legarsi ad un paniere di valute internazionali. Per il Financial Times, la banca centrale inglese si sarebbe rivolta al Fondo Monetario Internazionale per chiedere un nuovo sistema valutario internazionale, affiancando la richiesta che viene da anni da alcuni “economisti eretici”. Il motivo di questa richiesta è semplice. Negli ultimi anni molte economie emergenti sono state distrutte dalla fuga di dollari, necessari ad ogni paese per costituire le riserve della banche centrali, fondamentali nel commercio internazionale e nella stabilizzazione delle proprie valute.
È tempo dunque di un mondo multipolare anche nel sistema monetario, ancora legato a meccanismi costruiti durante la guerra fredda e il bipolarismo tra Usa e Urss. Nel frattempo sono crollati gli Accordi di Bretton Woods, e le monete sono diventate valute Fiat fiduciarie, mentre il mondo si sta allargando ad altri attori.

La Gran Bretagna chiede al FMI di intervenire prima che la Cina acquisisca quel potere per insidiare il primato del dollaro con il suo yuan. Gli Stati Uniti da soli non saranno più in grado di gestire il sistema finanziario e monetario globale, che dovrà essere condiviso prima che sia troppo tardi, attraverso una “valuta egemonica sintetica” delle banche centrali.

L’economia Usa rappresenta il 15% del Pil mondiale, e il 10% del commercio, ma più del 60% dei titoli, e il 50% delle fatture, sono in dollari.

Stagnazione: per il momento ci salvano le esportazioni

L’Istat riferisce sullo stato dell’economia italiana e aleggia lo spettro della stagnazione, con tutti gli indicatori, tranne le esportazioni, che vanno in quella direzione. È lo stesso presidente dell’Istituto di statistica, Gian Carlo Blangiardo, a presentare i dati in un’intervista, evidenziando come siano i dati industriali, in particolare, a dare prospettive negative, piuttosto che il Pil.

Non sono tutte nubi, per l’Italia, e i segnali “buoni” vengono da esportazioni e occupazione. Si scrive tra virgolette perché i due settori non hanno certamente numeri esaltanti, ma in tempo di crisi ci si accontenta anche di dati mediocri, ma che almeno non vanno verso la direzione della stagnazione.

Il resto non promette nulla di buono, anche se l’Italia continua a cercare la via d’uscita ad un’economia che non riesce a decollare. E per decollare si intende almeno agganciarsi alla mediocre media europea.

La situazione

In effetti la situazione non è rosea per l’intero continente e nemmeno per l’America. La locomotiva tedesca si è fermata da tempo, e l’America offre dati scoraggianti. Dagli Stati Uniti arrivano notizie che prospettano una recessione a breve, con l’inversione dei rendimenti e il taglio dei tassi da parte della Fed.

Il presidente Istat risponde a domande precise, e cerca di fare chiarezza. Meglio o peggio della crisi del 2011? Difficile fare il paragone, secondo il presidente intervenuto al meeting di Rimini, con la situazione attuale che parte da altri contesti.

Oggi infatti c’è la guerra commerciale tra Cina e Usa, la Brexit e la situazione italiana, a frenare l’economia. La novità è rappresentata dalla Germania, in forte difficoltà, dopo aver travolto tutto e tutti nella fase più delicata della crisi.

In Italia il dato positivo è l’aumento dell’occupazione, ma non sufficiente a garantire una ripresa, se non la si lega alla qualità del lavoro.

Forse è questo l’aspetto più deprimente della situazione italiana. L’offerta di lavoro è ripartita, ma stipendi e competenze richieste restano al palo. Precarietà, part-time e sottoutilizzo delle competenze sono ancora la piaga del mercato del lavoro italiano.

Se nel 2018 il paese torna al livello occupazionale del 2008, solo i lavoratori dell’informazione e comunicazione hanno migliorato il loro livello.

Tra crisi di Governo e stangata Iva: arriva l’allarme

 Il Governo aveva promesso che avrebbe scongiurato l’aumento automatico dell’Iva, ma se dovesse cadere l’esecutivo, la stangata sarebbe inevitabile. Manca poco e bisogna far presto, secondo gli addetti ai lavori, altrimenti arriverà una batosta sui consumatori che si rifletterà sull’economia del paese.

Se l’attuale maggioranza non dovesse trovare una soluzione alla crisi, o se si dovesse passare ad un Governo tecnico senza avere il tempo di apportare i correttivi, allora i cittadini pagheranno 23 miliardi in più per le merci.

L’aumento automatico dell’Iva

L’Iva è destinata ad aumentare automaticamente in base alle leggi di Bilancio che hanno introdotto le clausole di Salvaguardia. Queste scattano in modo automatico se non si rispettano i parametri europei. È quanto aveva promesso l’attuale Governo, rispettare questi parametri.

I conti pubblici italiani hanno bisogno di una sistemata, degli interventi che però potrebbero saltare anche in caso di Governo tecnico nominato dal Presidente della Repubblica. Salvini chiama al voto di sfiducia per il 20 agosto, ma gli interventi per “disinnescare” le misure automatiche e trovare le risorse necessaria per coprire i buchi richiedono tempo.

E le previsioni dicono che in caso di scatto automatico, l’incremento dell’Iva sarà di 23,07 miliardi di euro, che pagheranno cittadini ed imprese.

Si tratterebbe di un aumento che potrebbe mettere in ginocchio i consumatori. Anche perché questa volta l’aumento sarebbe consistente, con l’Iva che andrebbe al 22% per i beni di consumo, e al 25,2% per altri beni. Anche i beni che godono di un’aliquota avvantaggiata, quelli essenziali ed alimentari, andrebbero al 13%, con un aumento netto di un solo colpo del 3%.

Fino ad ora l’aumento automatico dell’Iva era stato evitato grazie ai vari interventi, ma mai era capitata una crisi nel bel mezzo di un momento così delicato, con la lettera di richiamo da parte dell’Unione Europea ancora fresca, e le relative promesse italiane accettate da Bruxelles.

Ma se da una parte si scongiurano aumenti per i cittadini, sulle merci, dall’altra lo Stato continua a dover coprire i buchi, come successe al tempo di Renzi che dovette mettere sul piatto quasi 30 miliardi in due anni. Con Gentiloni furono 15 i miliardi in più da aggiungere, e con Conte, l’anno scorso, si arrivò quasi a 13 miliardi di manovra.

Conoscenza e competenze finanziarie disponibili per tutti. Istruzioni per condividere un futuro sereno

Dal 1 al 31 ottobre torna per il secondo anno consecutivo il Mese dell’Educazione Finanziaria promosso dal Comitato per la programmazione e il coordinamento delle attività di educazione finanziaria. Lo scopo di questo evento nazionale è quello di organizzare una rete di istituzioni e associazioni che possano con le loro iniziative dare vita a una serie di momenti divulgativi proiettati ad aiutare i cittadini a crescere e ad evolversi sul tema della finanza.